Saint Seiya GS - Il Forum della Terza Casa


Autore Topic: Nèkuia e\o Catabasi: discesa agli Inferi degli eroi nell mitologia greco-romana  (Letto 23192 volte)

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Il termine Nékuia è greco, letteralmente vuol dire Viaggio al termine della notte, generalmente in letteratura viene usato per indicare la discesa agli Inferi di Odisseo nel poema omerico a lui dedicato, l'Odissea, successivamente tale termine venne dato anche alle discese agli inferi compiute da Eracle, Orfeo, Teseo insieme all'amico Piritoo ed Enea che vengono anche chiamate Catabasi (letteralmente discesa\e dal greco kata=giu e bainein=andare). Questi miti e racconti sono di fondamentale importanza in quanto ci permettono di fare chiarezza sulla religiosità del mondo antico che era solitamente divisa in essoterica, la religione politeista ed il pantheon di dei che tutti più o meno conosciamo, ed esoterica, costituita dai riti misterici, nel mondo greco antico spiccavano i misteri orfici, legati alla figura di Orfeo, Persefone e Dioniso, ed i misteri eleusini, legati alla figura di Demetra e in un certo qual modo della stessa Persefone.
ERACLE
Dopo aver affrontato Gerione e i Centauri, Eracle riceve l’ordine da Euristeo di catturare Cerbero, il cane custode degli inferi e figlio di Echidna e Tifone, fratello del leone di Nemea, dell’Idra di Lerna e del cane Ortro (mostri che Ercole, durante le sue fatiche, aveva già affrontato); prima di questa impresa, secondo alcune fonti, Ercole dovette purificarsi, perchè le sue mani erano colpevoli del massacro dei centauri. Eracle si recò quindi ad Eleusi, presso Atene, per essere iniziato ai misteri eleusini, poichè essi propiziavano la discesa nell’Aldilà, lì fu iniziato ai misteri e\o culti in onore di Demetra, gli Ateniesi però non vollero ammetterlo ai Grandi Misteri, dal momento che non era ateniese e crearono in questa occasione i Piccoli Misteri eleusini, destinati ad un cerchio più ampio di persone e definiti anche Misteri Minori i cui iniziati erano i Mùstes.
Quando Eracle scese agli Inferi fu accompagnato da Atena ed Hermes, secondo alcune fonti, entrò nell’Aldilà attraverso capo Tenaro, spaventò Caronte al punto che il nocchiero delle anime lo traghettò al di là dell'Acheronte disobbedendo agli ordini di Ade e successivamente fu punito per questo. A questo punto tutte le anime fuggirono spaventate tranne la gorgonie Medusa e (secondo alcune fonti) Meleagro che offrì ad Ercole la propria sorella, Deianira, in moglie. Dopo alcuni incontri che lo sottoposero a diverse prove, Ercole incontrò infine Ade che gli permise di portare via Cerbero a patto di non usare armi per catturarlo: Eracle strangolò quasi il cane mostruoso che si arrense e fu condotto fuori dagli Inferi. Sulla strada del ritorno, secondo alcune versioni del mito, Cerbero avrebbe sputato generando con la sua bava la pianta dell’aconito, secondo altre versioni invece la vista di Cerbero spaventava tanto gli uomini da pietrificarli. Quando Ercole arrivò ad Argo, Euristeo alla vista di quel mostro si nasconse in un otre e ordinò di riportare il mostruoso cane negli Inferi; poi, dopo aver celebrato un sacrificio, egli offrì ad Ercole la porzione destinata agli schiavi, riservando la parte migliore alla sua gente, per vendetta Ercole uccise i suoi figli.

TESEO E PIRITOO
Secondo alcune versioni del mito in seguito alla morte di Ippodamia (moglie di Piritoo), Piritoo convinse Teseo, rimasto da poco vedovo in seguito al suicidio della moglie Fedra, a rapire Elena, la figlia di Zeus e Leda e sorella dei Dioscuri Castore e Polluce. Entrambi gli amici volevano unirsi a lei in matrimonio, e decisero di estrarre a sorte il futuro sposo, e di rapire poi un'altra figlia di Zeus da assegnare all'altro. I due dunque riuscirono a catturarla mentre compiva sacrifici fuori da Sparta, e la sorte favorì Teseo che resosi però conto della giovane età della fanciulla la portò in Attica e l'affidò alle cure dell'amico Afidno. Quando Elena raggiunse l'età da marito Piritoo ricordò a Teseo il giuramento fatto e lo indusse ad andare a Delfi per chiedere indicazioni precise all'oracolo di Apollo. La risposta che diede la Pizia (sacerdotessa dell'oracolo di Delfi) fu ironica: "Perché non scendete nel Tartaro e chiedete che Persefone, la moglie di Ade, diventi la moglie di Piritoo? Lei è la più nobile delle figlie di Zeus". Piritoo prese sul serio questo responso, e per quanto Teseo rimanesse incredulo e basito dalla risposta della Pizia , lo convinse a seguirlo nel Tartaro e a tenere fede al giuramento. I due amici, una volta penetrati nell'Oltretomba, chiesero udienza ad Ade, il dio degli inferi li accolse e stette a sentire la sfrontata motivazione della loro venuta simulando cordiale ospitalità li fece poi sedere, la sedia in realtà era una trappola: si trattava della "sedia dell'oblio", infatti appena qualcuno vi si fosse seduto essa sarebbe divenuta carne della carne di colui che aveva la sventura di sedervisi sopra, il quale quindi non avrebbe mai più potuto liberarsi. Passarono quattro anni in cui i due rimasero così imprigionati, finché Eracle, sceso nel Tartaro per catturare il cane Cerbero nell'ultima delle sue fatiche,  espresse il desiderio di liberare Teseo: Persefone, che lo accolse come fratello, gliene concesse la possibilità. Eracle quindi si avvicinò alla sedia e iniziò a tirare, finché, con uno strappo riuscì a liberare Teseo, tentò anche di liberare Piritoo, ma la terra iniziò a tremare: dopotutto era stato proprio Piritoo l'ispiratore di quella sciagurata idea: Eracle dunque desistette e Piritoo restò nel Tartaro per l'eternità.
Secondo altre versioni tuttavia Eracle liberò anche Piritoo, oppure sia Teseo che Piritoo si erano recati nella città della Tesprozia chiamata Cichiro, dove avevano cercato di rapire la moglie del re Aidoneo, il quale scoperta la trama gettò Piritoo in pasto ai cani e rinchiuse Teseo in una torre, da cui venne liberato da Eracle.

ORFEO
Riporto qui sotto un mio articolo pubblicato su Le Chat Noir
Spoiler
IL MITO DI ORFEO ED I MISTERI ORFICI.

Molti artisti, musicisti, poeti e uomini di lettere hanno parlato di Orfeo e trattato il suo mito. Nella nostra memoria egli è il cantore per eccellenza, colui che col suo canto melodioso arrivò a commuovere Persefone e Ade, dei dell'oltretomba. Ma questo mito così commovente e se vogliamo così tragico, così sublime eppure così umano e triste, che parla dell'uomo che anche dopo la morte continuò a ripetere cantando il dolce nome della sua amata Euridice, ci narra solo una storia d'amore mesta e triste? Questo mito ci dice solo ciò? Ma Platone stesso non usa il mito per trasmettere i suoi insegnamenti? Il grande filosofo ci parla di come il mito riveli all'uomo, più della filosofia stessa, le verità ultime, i cosiddetti misteri nel mondo antico. Mi sento sospinta su questa strada: leggere il mito, capire il suo significato, il mito è simbolo ed il simbolo evoca, dal profondo delle nostre anime, verità che già conosciamo ma che, come il sommo Platone ci dice, abbiamo dimenticato. Cosa quindi il mito di Orfeo evoca in me?
Umilmente ho provato a dare una risposta, in base agli studi classici fatti e soprattutto in base al mio sentire, alla mia anima. Spero che il percorso che insieme seguiremo non vi risulti spiacevole, quindi "partiamo".

Figlio della Musa Callìope e del sovrano tracio Eàgro, o, secondo altre versioni del mito, figlio dello stesso Apollo e di una sua sacerdotessa, Orfeo, oltre a comparire ne "Le Argonautiche" di Apollonio Rodio come il cantore di miti cosmologici e come colui che riuscì a placare col suo canto il potere incantatore delle Sirene, il mito di Orfeo narra del suo amore per Euridice, morta mentre fuggiva da Aristeo, innamorato da lei respinto, per il morso di un serpente velenoso, e della sua discesa agli Inferi per riavere la vita dell'amata. Egli scende quindi nell'Ade ed incanta col suo canto melodioso Caronte, il traghettatore delle anime, e Cerbero, il custode del Regno dei morti. Dopo aver commosso la regina degli Inferi, Orfeo ottiene da Persefone, che a sua volta ha persuaso lo sposo Ade, il permesso di riportare alla luce Euridice ad una sola condizione: egli non dovrà mai voltarsi per guardare l'amata, solo quando entrambi saranno sotto la luce del sole, solamente allora egli potrà voltarsi e rivedere il suo dolce volto. Per assicurarsi che tutto proceda come stabilito Persefone chiede ad Hermes, il dio messaggero degli dei (come non pensare quindi ora al grande Ermete Trismegisto) di accompagnare Euridice sino alla luce affinché gli accordi non siano violati. Giunti proprio al termine dell'Ade Orfeo torna alla terra ed ai caldi raggi del sole, impaziente e felice si volta per vedere finalmente l'amata Euridice, ma, ahimè, si volta repentinamente: la sua amata ancora cammina nel Regno dei morti, così ella non potrà tornare alla vita e sarà morta due volte in quanto stava ora tornando di nuovo a vivere. Per la disperazione Orfeo vaga per tutta la terra piangendo il suo triste fato e declamando continuamente il suo triste amore per Euridice, offende con i suoi lamenti le Baccanti, che si vedono completamente ignorate, le quali lo dilaniano, la sua testa vaga sulle acque continuando ad invocare il nome dell'amata fino ad approdare all'isola di Lesbo, patria dei grandi poeti Alceo e Saffo, sacerdotessa cara ad Afrodite, dea dell'amore dove sarà custodita nel tempio di Apollo. Il suo corpo verrà seppellito dalle Muse ai piedi del monte Olimpo e la sua lira a sette corde (sette come le note musicali, sette come le virtù cardinali e quelle teologali e i sette raggi di cui parlano il Conte di San Germain ed Alice Bailey) verrà posta in cielo tra le costellazioni.

L'analogia, ma non solo, mi porta ad associare Orfeo all'Orfismo, la grande e la prima religione misterica della Grecia antica (i primi culti orfici si collocano all'incirca al VI sec. a. C). Innanzi tutto dobbiamo capire la religiosità dell'uomo greco: la religione si divideva in essoterica ed esoterica (i misteri), ecco quindi spiegate le varie mitologie e le forme differenti di esse. Questa religione misterica ripercorre la letteratura, la filosofia e l'arte greca come un possente e silenzioso fiume sotterraneo, e per chi sa ritrovarla e riconoscerla essa regala immensi tesori. L'Orfismo si presenta come una teologia dei misteri di Dioniso, il dio più vicino all'animo dell'uomo poiché concepito da una mortale. Vediamo insieme il mito di questo dio, uno degli ultimi fra i figli di Zeus. Dioniso è figlio di Zeus e della principessa tracia Seméle, quindi con le stesse origini trace di Orfeo. Durante la sua gravidanza la giovane fu motteggiata dalle sue tre sorelle, aizzate da Era, sposa legittima di Zeus, a far sì che il suo amato le si mostrasse in tutta la sua interezza. Fu così che la sventurata Seméle chiese a Zeus di manifestarsi in tutta la sua grandezza, la donna non era certo preparata alle folgori, massima manifestazione del re degli dei, e morì. Zeus allora prese Dioniso dal grembo materno e lo inserì nella sua coscia sino alla sua nascita. Una volta nato Era mandò i Titani ad ucciderlo, ma essi fecero di peggio: dopo averlo smembrato ne mangiarono parte del corpo, Atena, dea della sapienza e della giustizia, sorella di Dioniso, vide dove era finito il cuore del fratello e invocò il padre che subito accorse e sterminò i Titani folgorandoli, ricompose il rimanente del corpo del giovane dio insieme al cuore e gli ridiede la vita (come questo dio Orfeo fu smembrato, inoltre non possiamo non pensare ad Osiride fatto a pezzi dal fratello Seth e a Iside che ricompose il suo corpo trovandone tutti i pezzi sparsi per il mondo). Il giovane dio crebbe con le ninfe, le tre zie che espiarono così la loro colpa, e il suo maestro, il satiro Sileno, lontano dalla Tracia. Una volta cresciuto e conosciuta la sorte che toccò alla madre, scese nell'Ade e la riportò alla vita (altro parallelismo con Orfeo).

Alcune domande mi si presentano: come mai il mito di Orfeo, così legato al mito di Dioniso, è anche legato ad Apollo. L'analogia mi porta al dionisiaco e all'apollineo in Nietzsche: il filosofo tedesco aveva forse trovato il loro intrinseco legame? E ancora essa mi conduce ad un Inno Omerico in cui Apollo e Dioniso si contendono l'oracolo di Delfi.......Continuiamo il nostro cammino.
Edouard Shurè.
Ecco a questo punto mi la meravigliosa trattazione dell'Orfismo e della figura di Orfeo di Edouard Shurè ne "I grandi iniziati": ripercorriamone i punti principali insieme alle mie prime considerazioni.
1) Innanzi tutto Shurè parla della Grecia e dei Misteri: i Greci sapevano che la verità è dentro di noi, per loro l'anima era la sola e divina realtà nonché la chiave dell'universo; concentrando nell'anima la loro volontà, sviluppandone le facoltà latenti, raggiungevano il Dio vivente, la cui luce consentiva agli uomini di comprendere tutti gli esseri viventi; il Progresso altro non era per loro che l'evoluzione nello spazio e nel tempo di quella Causa centrale e di quel Fine ultimo che è Dio.
2) Più che in altre civiltà in Grecia il pensiero esoterico è più visibile e più celato: più visibile in quanto si esplica attraverso una mitologia umana ed affascinante che scorre "come nettare o sangue nelle vene di quella civiltà e zampilla da ogni poro dei suoi Dèi come profumo o rugiada celeste". Il profondo pensiero scientifico che presiedette al concepimento di quei miti grandiosi è molto difficile da penetrare a causa della loro seduzione e degli abbellimenti aggiunti dai poeti, ma i principi della sapienza misterica sono iscritti a lettere d'oro sia nei frammenti orfici e nel pitagorismo che nella volgarizzazione fantasiosa che fece Platone.
3) Anche la Grecia aveva una geografia sacra in cui una regione diveniva puramente una regione intellettuale e ultraterrena dello spirito. La Tracia fu sempre considerata dai Greci come la terra sacra per antonomasia, paese della luce e patria delle Muse. Sui monti traci sorgevano gli antichissimi santuari di Cronos, di Urano e di Zeus da cui scesero, con le Muse, la Poesia, la Legge e le Arti Sacre (è bene ora ricordare che Strabone affermava che anticamente la poesia altro non era che un linguaggio allegorico e ciò è confermato da Dionigi d'Alicarnasso che sosteneva che i misteri della natura e le più sublimi concezioni della morale furono ricoperti da un velo, in questo senso la Poesia Greca Arcaica è chiamata Linguaggio degli Dei). Questo terreno sacro fu dilaniato da un profondo ed instabile contrasto fra i culti solari e quelli lunari che si disputavano il predominio. Questi due culti rappresentavano due teologie e due strutture sociali diametralmente opposte: i culti uranici e solari avevano i loro santuari sugli altipiani e sulle montagne, un collegio sacerdotale composto da soli uomini e leggi severe, mentre i culti lunari regnavano nelle foreste, nelle vallate profonde, il clero era composto da sacerdotesse, aveva riti voluttuosi, uso smodato delle forze occulte e predilezione per la sfrenatezza orgiastica. Solo l'equilibrio tra i principi maschili e femminili può dare vita ad una grande civiltà, in quanto la fusione perfetta dei due tipi di elementi costituisce l'essenza stessa ed il mistero della divinità. Prima dell'Orfismo in Grecia predominavano i culti lunari femminili. Di notte con alle braccia serpenti attorcigliati le Baccanti si prosternavano ai piedi di Ecate, la Triplice, ed in frenetico girotondo poi evocavano Dioniso Ipogeo (sotterraneo) dalla testa di toro (ancora l'analogia mi fa sovvenire un pensiero: l'era del Toro in cui fiorirono i misteri di Iside ed Osiride), ma guai al sacerdote di Zeus o di Apollo che osasse spiarle, egli veniva fatto a pezzi.
E' bene ora ricordare che per Fabre d'Oliviet il nome Trakia (Tracia) deriva dal fenicio Rakhiwa: lo spazio etereo, il firmamento. Per gli iniziati Greci come Pindaro, Eschilo o Platone, il nome Tracia assumeva il significato simbolico di terra della dottrina pura e della poesia ieratica che da essa deriva. Sul piano filosofico esso indicava uno spazio intellettuale, l'insieme delle dottrine e delle tradizioni che facevano derivare il mondo da un Intelletto divino. Sul piano storico quel nome evocava il territorio, il ceppo da cui la dottrina e la poesia dorica era in un primo tempo spuntato per poi fiorire in Grecia, nel Santuario di Apollo. A Delfi esisteva una classe di Sacerdoti Traci, custodi della somma dottrina; anticamente il tribunale degli anfizioni era difeso dalle guardie trace, vale a dire da guerrieri iniziati; più tardi il verbo tracizzare fu applicato ai seguaci delle antiche dottrine.
4) Orfeo apparve in Tracia in questo periodo di scontro fra le due religioni. Shurè ce lo presenta come un giovane di stirpe reale ed affascinante, la cui voce melodiosa aveva uno strano richiamo in quanto parlava degli dei con una nuova cadenza, come se fosse ispirato. Dai lunghi capelli dorati e fluenti, la musica che sgorgava dall'animo suo produceva in lui un sorriso soave e triste allo stesso tempo; i suoi occhi, di un intenso azzurro,  avevano una luce di comando, di dolcezza e di magia: i Traci ne sfuggivano lo sguardo, ma le donne affermavano con convinzione che nel ceruleo dei suoi occhi i raggi del sole si mescolavano alle carezze della luna. Le stesse Baccanti, incuriosite da questa sua bellezza, gli giravano intorno "come pantere in amore". Questo giovane d'un tratto scomparve, si diceva che fosse morto, disceso negli Inferi, ma in realtà si era recato a Samotracia per poi passare in Egitto dove aveva chiesto asilo ai sacerdoti di Menfi di cui apprese i misteri e tornò dopo anni col nome iniziatico di Orfeo o Arpha (Aur, luce e rophae, guarigione): colui che guarisce con la luce. Fu accolto sul monte Kaukaion presso l'antico santuario di Zeus come un Sacerdote, con il suo entusiasmo e la sua sapienza egli conquistò i Traci, trasformò il culto di Dioniso ed ammansì le Baccanti, consacrò Zeus in Tracia ed Apollo a Delfi e lui, che istituì i Misteri, fuse, al culmine dell'iniziazione, il culto di Zeus con quello di Dioniso in un unico concetto universale. Dal suo insegnamento gli iniziati ricevevano la pura luce della somma verità e quella stessa luce, attenuata sotto il velo della poesia e delle cerimonie egli diffondeva su tutti lui, il Sommo sacerdote di Zeus Olimpio e manifestatore della divinità di Dioniso per gli iniziati.

Percorso misterico.
Ora il discorso procede secondo le parole di Eraclito:"Il dio che ha il suo oracolo a Delfi non dice né nasconde: da un segno (ovvero accenna)" (Fr. 93 Diels-Kranz). A tutti noi il compito di penetrare il mistero celato nelle seguenti parole.
Orfeo, sempre seguendo Shuré, salva Euridice dai culti di Ecate e dalle Baccanti, spinto da un vero amore mai provato prima nato dal "cielo sopito nel suo sguardo", la giovane sposa muore avvelenata e lui scende sempre più nei misteri viaggiando per il mondo conosciuto per capire dove fosse andata l'anima della sposa defunta, fino a tornare in Tracia come Sacerdote (lo divenne per amore della sua Euridice) a presentarsi alle Baccanti durante i loro riti sacri sapendo di morire massacrato affinché la sua missione si convalidasse con la sua morte: discendere di nuovo agli Inferi per ascendere al cielo di modo che Apollo fosse la luce sulla Grecia e Dioniso (il Dioniso celeste che secondo la teogonia orfica era figlio di Zeus e Persefone) il sole degli iniziati. Ancora dopo che morì Euridice risuonava dalle sue labbra.
Ecco allora l'intuizione di quanto grande, oltre al pensiero sulla tragedia Greca, sia stata l'opera di Nietzsche La nascita della Tragedia con i suoi "Apollineo" e "Dionisiaco", ecco l'arcano significato dell'Inno omerico che descrive la lotta tra Dioniso ed Apollo per il santuario di Delfi, ecco l'iniziatico senso della tragedia greca stessa, il cui nome significa canto del tragos, capro, animale sacro a Dioniso, ecco ancora dipanarsi le nubi sui versi di Eraclito, dagli antichi definito l'oscuro.
Altre considerazioni affiorano dalla mia anima e si esplicano nella mia mente:
Euridice, il cui nome significa "grande, vasta giustizia", fu colei che fece scorgere in Orfeo (colui che guarisce con la luce) il frammento di cielo, la luce divina, sopito in ognuno di noi ed accese in lui il ricordo divino di Eros.
Mi soffermo su questa divinità: secondo Esiodo (Teogonia) nacquero da Caos (il tutto mescolato) Terra, Tartaro ed  Eros "il più bello degli immortali, che scioglie le membra e doma la mente ed il saggio volere di tutti gli dei e di tutti gli uomini" (Teogonia vv.120-122) e fu grazie a lui che i successivi dei nacquero anche per unione di due divinità. Questo dio potente ed immanente, superiore allo stesso Zeus, spinse Orfeo a scendere negli Inferi per sapere che fine aveva fatto l'anima dell'amata Euridice, sempre questo dio fece sì che Orfeo diventasse istitutore dei misteri e portatore di luce, ancora sempre questo Dio spinse il nostro Orfeo alla realizzazione del proprio sparagmos (smembramento), il cui parallelo ci riporta a Dioniso, nell'univoco canto ad Euridice. In sintesi questo Dio è la motivazione iniziatica dello stesso Orfeo.
Passiamo ora al mito dei suoi resti: il suo corpo sepolto ai piedi del monte Olimpo è un'omaggio alle divinità, la sua testa conservata nel tempio di Apollo a Lesbo sancisce e consacra la poesia Greca Arcaica che in Saffo ed Alceo aveva due fra i suoi massimi rappresentanti, e la sua lira posta tra le costellazioni in cielo sancisce la matrice divina del suo canto iniziatico: mentre i poeti lirici cantavano Apollo, i grandi iniziati invocavano l'anima di Orfeo, portatore di luce e divinatore.

Spero che dopo questo percorso l'analogia e lo spirito ci portino a leggere i seguienti frammenti orfici e di filosofie orfiche con sguardo animico sveglio e non dormiente.

"E io non mi meraviglierei se Euripide affermasse il vero là dove dice:
Chi può sapere se il vivere non sia morire e se il morire non sia vivere?"
(Platone, Gorgia, 492e-493a).

"Difatti alcuni dicono che il corpo è la tomba dell'anima, quasi che essa vi sia presentemente sepolta: e poiché d'altro canto con esso l'anima esprime (semainei=semaìnei) tutto ciò che esprime, anche per questo è stato giustamente chiamato "segno" (sema=sema). Tuttavia mi sembra che siano stati soprattutto i seguaci di Orfeo ad aver stabilito questo nome, quasi che l'anima espii le colpe che appunto deve espiare, e abbia intorno a sé, per essere custodita (swzetai=sòzetai), questo recinto, sembianza di una prigione. Tale carcere dunque, come dice il suo nome, è "custodia" (soma=soma) dell'anima, sino a che  essa non abbia finito di pagare i suoi debiti, e non c'è nulla da cambiare, neppure una sola lettera"
(Platone, Cratilo, 400c).

"Vengo dai puri pura, o regina degli inferi,
Eucle ed Eubuleo e voi altri dèi immortali,
poichè io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice;
ma la Moira mi soverchiò, e altri dei immortali
(...) e la folgore scagliata dalle stelle.
Volai via dal cerchio che dà affanno e pesante dolore,
e salii a raggungere l'anelata corona con i piedi veloci,
poi m'immersi nel grembo della Signora, regina di sotto terra,
e discesi dall'anelata corona con i piedi veloci.
"Felice e beatissimo, sarai dio anzichè mortale".
Agnello caddi nel latte"
(Laminetta orfica di Turi 1)

"Ma non appena l'anima abbandona la luce del sole,
a destra (...) racchiudendo, lei che conosce tutto assieme.
Rallegrati, tu che hai patito la passione: questo prima non l'avevi ancora patito.
Da uomo sei nato dio: agnello cadesti nel latte.
Rallegrati, rallegrati, prendendo la strada a destra
verso le praterie sacri e i boschi sacri di Persefone"
(Laminetta orfica di Turi 4).

"Immortali mortali, mortali immortali: vivendo la morte di quelli, morendo la vita di quelli"
(Eraclito Fr.62 Diels-Kranz).

"I confini dell'anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie così prorfondo è il suo logos"
(Eraclito Fr.45 Diels-Kranz).

"Difficile è la lotta contro il desiderio, poiché ciò che esso vuole lo compra a prezzo dell'anima".
(Eraclito Fr.83 Diels-Kranz)

"Per le anime è morte diventare acqua, per l'acqua è morte diventare terra; ma dalla terra nasce l'acqua e dall'acqua l'anima"
(Eraclito Fr. 36 Diels-Kranz).

"Io invoco il grande, il puro, l'amabile, il dolce Eros, impetuoso nell'assalto, che scherza con gli dei e gli uomini mortali, industrioso dalla doppia natura, che di tutto possiede le chiavi, dell'etere celeste, del mare, della terra e di quante immortali aure feconde rea fruttifera nutre e di quanto l'ampio Tartaro e il risonante mare egli serra, che tu solo queste cose governi. Discendi o beato, agli iniziati con puri pensieri e i turpi e i rei desideri da loro allontana"
(Inno orfico ad Eros).

Come dice un grande Maestro: "Ponderiamo su questo", cioè su queste parole.
Dioniso non è mai nominato ma sottende ciascuna parola, sentiamo dunque il Dioniso orfico che pulsa nelle nostre anime, incamminiamoci e torniamo là da dove siamo venuti grazie all'anelito che Eros in noi fa scaturire per Dioniso. Dioniso: il più grande dei misteri.
Ricordiamoci il significato orfico dell'Ade: luogo di purificazione ed applichiamo il sacro principio ermetico dell'analogia per conseguire superiori consapevolezze seguendo il Dio che in noi accenna: il mistero va penetrato.
Vi saluto con il comandamento principale per l'uomo che aspira alle alte iniziazioni: "Il dio ci comanda di obbedire a colui che ci ammonisce: uomo conosci te stesso".
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ODISSEO
PREMESSA IMPORTANTE: ricordo che Iliade e Odissea ci sono tramandate sotto il nome di Omero ma che la persona Omero sia mai esistita non ci è dato saperlo in quanto non ci sono fonti che ne attestano l'esistenza: dalla storia delle prime redazioni scritte e dalle fonti degli antichi greci si presume con certezza che esse siano la raccolta di canti orali degli Aedi e dei Nostoi, storie conosciute del ritorno degli eroi dalla guerra di Troia, i contenuti dei poemi sono quindi da ricondurre direttamente al mito (sulle varie ipotesi specifiche poi gli studiosi ancora terorizzano e sulla genesi dei poemi, cioè come quando e perchè tali racconti e canti siano stati raccolti e come mai il tutto sotto il nome di Omero, ancora è aperta la Questione Omerica). Omeros in greco antico vuol dire "Colui che è privo della vista" e secondo una delle ipotesi indicherebbe il fatto che tali poemi sono ispirati da divinità, infatti gli indovini, coloro che vedono il futuro, nel mondo greco spesso erano rappresentati privi della vista fisica in virtù della loro vista interiore e tutto ciò per volere degli dei

Nel X e XI Libro dell'Odissea vediamo descritta la discesa agli inferi del re di Itaca dalle indicazioni di Circe all'impresa vera e propria. In questo caso anzichè di una catabasi qui si tratta di un vero e propio rito negromantico di evocazione in cui si riscontrano indirette descrizioni dell'oltretomba e sominglianze con i riti evocari misterici.
Seguendo le indicazioni di Circe, Odisseo e i suoi compagni attraversarono l'Oceano e raggiunsero una baia situata all'estremo limite occidentale del mondo conosciuto, nella terra dei Cimmeri. Lì, dopo aver celebrato un sacrificio in loro onore, Odisseo scese nel mondo dei morti, per consultare lo spettro dell'antico indovino Tiresia affinché gli facesse da guida nel suo viaggio di ritorno ad Itaca. Dopo il sacrificio, diverse ombre si appressarono intorno a lui e la prima riconosciuta dall'eroe è quella del compagno Eplenore, lasciato alla dimora di Circe vivo, che spiega come è morto e prega Odisseo di compiere un solenne rito funebre in suo al ritorno dal viaggio, rattristato e dispiaciuto l'eroe senza esitare acconsentì. Poi gli venne incontro lo spettro di sua madre, che era morta di crepacuore durante la sua lunga assenza, e a malincuore nemmeno a lei l'eroe diede da bere il sangue del sacrificio che serbava per Tiresia, il quale sopraggiunse e, dopo aver bevuto il sangue, svelò ad Odisseo l'ira di Poseidone e cosa avrebbe dovuto fare per rientrare a casa, di cui illustrò la situazione attuale (Proci) profetizzando anche la morte dei suoi compagni. Commovente è anche il dialogo con la madre che dopo Tiresia si avvicinò per bere il sangue e riconobbe il figlio. Odisseo incontrò poi molti altri spiriti di uomini e donne illustri e famosi, tra i quali il fantasma di Agamennone che lo mise al corrente del suo assassinio, consigliandogli di tornare ad Itaca in incognito anche per vedere come si comportava Penelope, e gli chiese notizie del figlio Oreste, lo spettro di Achille che si dimostrò rimpiangere il dolce mondo e chiese notizie del padre e del figlio, l'ombra di Aiace Telamonio che sprezzante per la perdita della contesa per le armi di Achille non gli rivolse parola, e poi ancora Minosse, descritto come giudice infernale, Tantalo, Sisifo e lo stesso Eracle.



« Ultima modifica: 18 Aprile, 2010, 14:20:47 pm da tisifone75 »
Il fiore sboccia e appassisce, la stella brilla nella notte per poi sbiadire: ogni cosa ha una fine...la vita umana è soltanto un fugace battito di ciglia
Caldo di luce il seme in me germoglia, da ghiaccio in foco il cuore mio tramuta, dona la forza, la mente mia rinfranca, e per la dea il braccio mio non stanca!
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Mi scuso per il post doppio ma non ci stava tutto in un unico post.

Riporto spezzoni della versione dell'Odissea del grande Ippolito Pindemonte che descrivono accuratamente la discesa agli Inferi di Odisseo
Libro X: preparazione e annuncio del Viaggio
Spoiler
Circe:"O di Laerte sovrumana prole",
la dea rispose, "ritenervi a forza
io più oltre non vo'. Ma un'altra via
correre in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi
di Pluto e di Proserpina soggiorni
vedere in prima, e interrogar lo spirto
del teban vate, che, degli occhi cieco,
puro conserva della mente il lume;
di Tiresia, cui sol diè Proserpina
tutto portar tra i morti il senno antico.
Gli altri non son che vani spettri ed ombre".Rompere il core io mi sentìi. Piagnea,
su le piume giacendomi, né i raggi
volea del Sol più rimirare. Al fine,
poiché del pianger mio, del mio voltarmi
su le piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,
"Di tal vïaggio sarà il duce? All'Orco
nessun giunse finor su negra nave".

.........
Circe:Come varcato l'Oceàno avrai,
ti appariranno i bassi lidi, e il folto
di pioppi eccelsi e d'infecondi salci
Bosco di Proserpìna: e a quella piaggia,
che l'Oceán gorghiprofondo batte,
ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.
rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi
s'urtan tra lor rumoreggiando, e uniti
nell'Acheronte cadono: Cocito,
ramo di Stige, e Piriflegetonte.

.........
Circe:Molte Ombre accorreranno. A' tuoi compagni
le già sgozzate vittime e scoiate
mettere allor sovra la fiamma, e ai numi,
al prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina drizzar voti comanda.
E tu col brando sguainato siedi,
né consentir, che anzi che parli al vate,
i mani al sangue accostinsi. Repente
il profeta verrà, duce di genti,
che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno
pel mar pescoso alle natìe contrade
ti darà, quanto basta, indizio e lume".

...........
Odisseo"Alle patrie contrade andar credete.
ma un altro pria la venerabil diva
ci destinò cammin, che ai foschi regni
di Pluto e di Proserpina conduce,
per quivi interrogar del rinomato
teban Tiresia l'indovino spirto".
Duol mortale gli assalse a questi detti.
Piangeano, e fermi rimanean lì lì,
e la chioma stracciavansi: ma indarno
lo strazio della chioma era, ed il pianto.
mentre al mar tristi tendevamo, e spesse
lagrime spargevam, Circe, che in via
pur s'era posta, alla veloce nave
Legò la bruna pecora e il montone.
Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,
con piè leggiero. Chi potrìa de' numi
scorgere alcun che qua o là si mova
quando dall'occhio uman voglion celarsi?
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Canto XI
Spoiler
Toccò la nave i gelidi confini,
là 've la gente de' Cimmerî alberga,
cui nebbia e buio sempiterno involve.
Monti pel cielo stelleggiato, o scenda
lo sfavillante d'ôr sole non guarda
quegl'infelici popoli, che trista
circonda ognor pernizïosa notte.
Addotto in su l'arena il buon naviglio,
e il monto e la pecora sbarcati,
alla corrente dell'Oceano in riva
camminavam; finché venimmo ai lochi
che la dea c'insegnò.

...........
Ed ecco sorger della gente morta
dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi
le pallid'ombre
: giovanette spose,
garzoni ignari delle nozze, vecchi
da nemica fortuna assai versati,
e verginelle tenere, che impressi
èortano i cuori di recente lutto;
E molti dalle acute aste guerrieri
nel campo un dì feriti, a cui rosseggia
sul petto ancor l'insanguinato usbergo.
Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo
aggiravan la fossa, e con tai grida,
ch'io ne gelai per subitana tema.
pure a Eurìloco ingiunsi, e a Periméde
le già scannate vittime e scoiate
por su la fiamma, e molti ai dèi far voti,
Al prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina: ma io col brando ignudo
sedea, né consentia che al vivo sangue,
pria ch'io Tiresia interrogato avessi,
S'accostasser dell'ombre i vôti capi.

..........
Comparve in questo dell'antica madre
l'ombra sottile, d'Anticlèa
, che nacque
dal magnanimo Autolico, e a quel tempo
era tra i vivi ch'io per Troia sciolsi.
La vidi appena, che pietà mi strinse
,
e il lagrimar non tenni: ma né a lei,
quantunque men dolesse, io permettea
al sangue atro appressar, se il vate prima
favellar non s'udìa. Levossi al fine
con l'aureo scettro nella man famosa
l'alma Tebana di Tiresia, e ratto
mi riconobbe
, e disse: "Uomo infelice,
perché, del sole abbandonati i raggi,
le dimore inamabili de' morti
scendesti a visitar? Da questa fossa
ti scosta, e torci in altra parte il brando,
sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri
".
Il piè ritrassi, e invaginai l'acuto
d'argentee borchie tempestato brando.
Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa
movea le labbra: "Rinomato Ulisse,
tu alla dolcezza del ritorno aneli
e un nume invidïoso il ti contende
come celarti da Nettun, che grave
contra te concepì sdegno nel petto
pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?

Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,
sol che te stesso e i tuoi compagni affreni,
quando, tutti del mar vinti i perigli,
approderai col ben formato legno
alla verde Trinacria isola, in cui
pascon del Sol, che tutto vede ed ode,
i nitidi montoni e i buoi lucenti.
Se pasceranno illesi, e a voi non caglia
che della patria, il rivederla dato,
benché a stento, vi fia. Ma dove osiate
lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi,
e alla nave io predico, ed a te stesso.
E ancor che morte tu schivassi, tardo
fora, ed infausto, e senza un sol compagno,
e su nave straniera, il tuo ritorno.
Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa:
protervo stuol di giovani orgogliosi,
che ti spolpa, ti mangia, e alla divina
moglie con doni aspira. È ver che a lungo
non rimarrai senza vendetta. Uccisi
dunque o per frode, o alla più chiara luce,
nel tuo palagio i temerarî amanti,
prendi un ben fatto remo, e in via ti metti:
né rattenere il piè, che ad una nuova
gente non sii, che non conosce il mare,
né cosperse di sal vivande gusta,
né delle navi dalle rosse guance,
o de' politi remi, ali di nave,
notizia vanta. Un manifesto segno
d'esser nella contrada io ti prometto.
quel dì che un altro pellegrino, a cui
t'abbatterai per via, te quell'arnese
con che al vento su l'aia il gran si sparge
portar dirà su la gagliarda spalla,
tu repente nel suol conficca il remo.
Poi, vittime perfette a re Nettuno
svenate, un toro, un arïete, un verro,
riedi, e del cielo agli abitanti tutti
con l'ordine dovuto offri ecatombe
nella tua reggia, ove a te fuor del mare,
e a poco a poco da muta vecchiezza
mollemente consunto, una cortese
sopravverrà morte tranquilla, mentre
felici intorno i popoli vivranno.
L'oracol mio, che non t'inganna, è questo".
"Tiresia", io rispondea, "così prescritto
(chi dubbiar ne potrebbe?) hanno i celesti.
Ma ciò narrami ancora: io della madre
l'anima scorgo, che tacente siede
appo la cava fossa, e d'uno sguardo,
non che d'un motto, il suo figliuol non degna.
che far degg'io, perché mi riconosca?
Ed egli: "Troppo bene io nella mente
io ti porrò. Quai degli spirti al sangue
non difeso da te giunger potranno,
sciorran parole non bugiarde: gli altri
da te si ritrarran taciti indietro".
Svelate a me tai cose, in seno a Dite
del profetante re l'alma s'immerse.
Ma io di là non mi togliea. La madre
s'accostò intanto, né del negro sangue
prima bevé, che ravvisommi, e queste
mi drizzò, lagrimando, alate voci:
"Deh come, figliuol mio, scendésti vivo
sotto l'atra caligine? Chi vive,
difficilmente questi alberghi mira,
però che vasti fiumi e paurose
correnti ci dividono, e il temuto
Ocean, cui varcare ad uom non lice,
se nol trasporta una dedalea nave.
Forse da Troia, e dopo molti errori,
con la nave e i compagni a questo buio
tu vieni? Né trovar sapesti ancora
Itaca tua? Né della tua consorte
riveder nel palagio il caro volto? "
"O madre mia, necessità", risposi,
"l'alma indovina a interrogar m'addusse
del Tebano Tiresia. Il suolo acheo
non vidi ancor, né i liti nostri attinsi;
ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,
dappoi che a Troia ne' puledri bella
seguìi, per disertarla, il primo Atride.
Su via, mi narra, e schiettamente, come
te la di lunghi sonni apportatrice
Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,
o te Dïana faretrata assalse
con improvvisa non amara freccia?
vive l'antico padre, il figlio vive,
che in Itaca io lasciai? Nelle man loro
resta, o passò ad altrui la mia ricchezza,
e ch'io non rieda più, si fa ragione?
e la consorte mia qual cor, qual mente
serba? Dimora col fanciullo, e tutto
gelosamente custodisce, o alcuno
tra i primi degli Achei forse impalmolla? "
Riprese allor la veneranda madre:
"La moglie tua non lasciò mai la soglia
del tuo palagio; e lentamente a lei
dcorron nel pianto i dì, scorron le notti.
stranier nel tuo retaggio, in sin ch'io vissi,
non entrò: il figlio su i paterni campi
vigila in pace, e alle più illustri mense,
cui l'invita ciascuno, e che non dee
chi nacque al regno dispregiar, s'asside.
Ma in villa i dì passa Laerte, e mai
a cittade non vien: colà non letti,
non coltri, o strati sontuosi, o manti.
Di vestimenta ignobili coverto
dorme tra i servi al focolare il verno
su la pallida cenere: e se torna
l'arida estate, o il verdeggiante autunno,
lettucci umìli di raccolte foglie,
stesi a lui qua e là per la feconda
sua vigna, preme travagliato, e il duolo
nutre, piangendo la tua sorte: arrogi,
ka vecchiezza increscevole che il colse.
Non altrimenti de' miei stanchi giorni
giunse il termine a me, cui non Dïana,
sagittaria infallibile, di un sordo
quadrello assalse, o di que' morbi invase,
che soglion trar delle consunte membra
l'anima fuor con odïosa tabe:
ma il desìo di vederti, ma l'affanno
della tua lontananza, ma i gentili
modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,
la vita un dì sì dolce hannomi tolta".
Io, pensando tra me, l'estinta madre
volea stringermi al sen: tre volte corsi,
quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,
e tre volte m'usci fuor delle braccia,
come nebbia sottile, o lieve sogno.
cura più acerba mi trafisse e ratto
:
"Ahi, madre", le diss'io, "perché mi sfuggi
d'abbracciarti bramoso, onde, anco a Dite,
le man gittando l'un dell'altro al collo,
di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
Fantasma vano, acciò più sempre io m'anga,
forse l'alta Proserpina mandommi?"
"O degli uomini tutti il più infelice",
la veneranda genitrice aggiunse,
"No, l'egregia Proserpina, di Giove
la figlia, non t'inganna. È de' mortali
tale il destin, dacché non son più in vita,
che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi
non si congiungan più: tutto consuma
la gran possanza dell'ardente foco,
come prima le bianche ossa abbandona,
e vagola per l'aere il nudo spirto
.
Ma tu d'uscire alla superna luce
da questo buio affretta: e ciò che udisti,
e porterai nell'anima scolpito,
Penelope da te risappia un giorno".
Mentre così favellavam, sospinte
dall'inclita Proserpina le figlie
degli eroi comparïano, e le consorti
e traean della fossa al margo in folla.
Io, come interrogarle ad una ad una
rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.
Stretta la spada, non patïa che tutte
bevessero ad un tempo. Alla sua volta
così accorrea ciascuna, e l'onorato
lignaggio ed i suoi casi a me narrava.
Prima s'appresentò l'illustre Tiro,
che, del gran Salmonèo figlia, e consorte
di Creteo, un de' figliuoli d'Eolo, sé disse.
Costei d'un fiume nell'amore accesa,
dell'Enipèo divin, che la più bella
sovra i più ameni campi onda rivolve,
spesso e bagnarsi in quegli argenti entrava.
L'azzurro nume che la terra cinge,
Nettuno, in forma di quel dio, corcossi
delle sue vorticose acque alla foce;
e la porporeggiante onda d'intorno
gli stette, e in un arco si piegò, qual monte,
lui celando, e la giovane, cui tosto
sciols'ei la zona virginale, e un casto
sopore infuse. Indi per man la prese,
e chiamolla per nome, e tai parole
le feo: "Di questo amor, donna, t'allegra.
compiuto non avrà l'anno il suo giro,
che diverrai di bei fanciulli madre,
quando vane giammai degl'immortali
non riescon le nozze. I bei fanciulli
prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,
ma il sappi sola, che tu in me vedesti
Nettuno, il nume che la terra scuote".
Disse; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.
Ella di Nèleo e Pèlia, ond'era grave,
s'allevïò. Forti del sommo Giove
ministri, l'un nell'arenosa Pilo,
nell'ampia l'altro, e di feconde gregge
ricca Iaolco, ebbe soggiorno e scettro.
Quindi altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro
domator di cavalli Amitaòne,
diede a Creteo costei, che delle donne
reina parve alla sembianza e agli atti.
Poi d'Asòpo la figlia, Antiopa, venne,
che dell'amor di Giove andò superba,
e due figli creò, Zeto e Anfione.
Tebe costoro dalle sette porte
primi fondaro, e la munir di torri:
ché mal potean la spazïosa Tebe
senza torri guardar, benché gagliardi.
Venne d'Amfitrïon la moglie, Alcmena
che al Saturnìde l'animoso Alcide,
cor di leone, partorì. Megàra
di Creonte magnanimo figliuola
e moglie dell'invitto Ercole, venne.
D'Edipo ancor la genitrice io vidi,
la leggiadra Epicasta (cioè Giocasta), che nefanda
per cecità di mente opra commise,
l'uom disposando da lei nato. Edìpo
la man, con che avea prima il padre ucciso,
porse alla madre: né celaro i dèi
Tal misfatto alle genti. Ei per crudele
voler de' numi nell'amena Tebe
addolorato su i Cadmei regnava.
Ma la donna, cui vinse il proprio affanno,
l'infame nodo ad un'eccelsa trave
legato, scese alla magion di Pluto
dalle porte infrangibili, e tormenti
lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno
le ultrici Furie, che una madre invoca.
Vidi colei non men, che ultima nacque
all'Iaside Anfïón, cui l'arenosa
Pilo negli anni andati, e il Minïeo
Orcomeno ubbidìa, l'egregia Clori,
che Neleo, di lei preso, a sé congiunse,
poscia ch'egli ebbe di dotali doni
la vergine ricolma. Ed ella il feo
ricco di vaga e di lui degna prole,
di Nestore, di Cromio, e dell'eroe
Periclimeno; e poi di quella Pero,
che maraviglia fu d'ogni mortale.
Tutti i vicini la chiedean; ma il padre
sol concedeala a chi le belle vacche
dalla lunata spazïosa fronte,
che appo sé riteneasi il forte Ificle,
gli rimenasse, non leggiera impresa,
dai pascoli di Filaca. L'impresa
Melampo assunse, un indovino illustre;
se non che a lui s'attraversaro i fati,
E pastori salvatichi, da cui
soffrir dové d'aspre catene il pondo.
Ma non prima, già in sé rivolto l'anno,
i mesi succedettersi ed i giorni,
e compiêr le stagioni il corso usato
che Ifìcle, a cui gli oracoli de' numi
svelati avea l'irreprensibil vate,
i suoi vincoli ruppe; e così al tempo
l'alto di Giove s'adempiea consiglio.
Leda comparve, da cui Tindaro ebbe
due figli alteri, Castore e Pollùce,
l'un di cavalli domatore, e l'altro
pugile invitto. Benché l'alma terra
ritengali nel sen, di vita un germe
(così Giove tra l'Ombre anco gli onora)
serbano: ciascun giorno, e alternamente,
rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,
e glorïosi al par van degli eterni.
Dopo costei mi si parò davanti
d'Aloèo la consorte, Ifimidèa;
cui di dolce d'amor nodo si strinse
lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,
Oto a un dio pari, e l'inclito Efialte,
che la luce del sol poco fruîro.
Né di statura ugual, né di beltade,
altri nodrì la comun madre antica,
sol che fra tutti d'Orïon si taccia.
Non avean tocco il decim'anno ancora,
che in largo nove cubiti, e tre volte
tanto cresciuti erano in lungo i corpi.
Questi volendo ai sommi dèi su l'etra
nuova portar sediziosa guerra,
l'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa
l'arborifero Pelio impor tentaro,
onde il cielo scalar di monte in monte;
e il fean, se i volti pubertà infiorava;
ma di Giove il figliuolo, e di Latona,
sterminolli ambo, che del primo pelo
le guance non ombravano, ed il mento.
Fedra comparve ancor, Procri ed Arianna
che l'amante Teseo rapì da Creta,
e al suol fecondo della sacra Atene
condur volea. Vane speranze! In Nasso,
cui cinge un vasto mar, fu da Dïana,
per l'indizio di Bacco, aggiunta e morta.
né restò Mera inosservata indietro,
né Climene restò, né l'abborrita
Erifile, che il suo diletto sposo
per un aureo monil vender poteo.
Ma dove io tutte degli eroi le apparse
figlie nomar volessi, e le consorti,
pria mancherìami la divina Notte.
E a me par tempo da posar la testa
o in nave o qui, tutta del mio ritorno
ai celesti lasciando, e a voi la cura.
Tacque.

........
Poiché le femminili Ombre famose
la casta Proserpìna ebbe disperse,
mesto, e cinto da quei che fato uguale
Trovâr d'Egisto negl'infidi alberghi,
si levò d'Agamennone il fantasma.
Assaggiò appena dell'oscuro sangue,
che ravvisommi; e dalle tristi ciglia
versava in copia lagrime, e le mani
mi stendea, di toccarmi invan bramose;
ché quel vigor, quella possanza, ch'era
nelle sue membra ubbidïenti ed atte,
derelitto l'avea
. Lagrime anch'io
sparsi a vederlo, e intenerìi nell'alma,
e tai voci, nomandolo, gli volsi:
"O inclito d'Atrèo figlio, o de' prodi
re, Agamennòne, qual destin ti vinse,
e i lunghi t'arrecò sonni di morte?
Nettuno in mar ti domò forse, i fieri
spirti eccitando de' crudeli venti?
O t'offesero in terra uomini ostili,
che armenti depredavi e pingui greggi.
O delle patrie mura, e delle caste
donne a difesa, roteavi il brando? "
"Laerziade preclaro, accorto Ulisse"
ratto rispose dell'Atride l'ombra
me non domò Nettuno all'onde sopra,
né m'offesero in terra uomini ostili.
Egisto, ordita con la mia perversa
donna una frode, a sé invitommi, e a mensa
come alle greppie inconsapevol bue,
l'empio mi trucidò. Così morìi
di morte infelicissima; e non lunge
gli amici mi cadean, quai per illustri
nozze, o banchetto sontuoso, o lauta
a dispendio comun mensa imbandita,
cadono i verri dalle bianche sanne.
Benché molti a' tuoi giorni o in folta pugna;
vedessi estinti, o in singolar certame,
non solita pietà tocco t'avrebbe,
noi mirando, che stesi all'ospitali
coppe intorno eravam, mentre correa
purpureo sangue il pavimento tutto.
La dolente io sentìi voce pietosa
della figlia di Priamo, di Cassandra,
cui Clitennestra m'uccidea da presso,
la moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,
con moribonda man cercava il brando:
ma la sfrontata si rivolse altrove,
né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre
chiudere, né compor degnò le labbra.
No: più rea peste, più crudel non dassi
di donna, che sì atroci opre commetta,
come questa infedel, che il danno estremo
tramò, cui s'era vergine congiunta.
Lasso! dove io credea che, ritornando,
Figliuoli e servi m'accorrìan con festa,
costei, che tutta del peccar sa l'arte,
si ricoprì d'infamia, e quante al mondo
verranno, e le più oneste anco, ne asperse".
"Oh quanta", io ripigliai, "sovra gli Atridi
le femmine attirâro ira di Giove!
Fu di molti de' Greci Elena strage!
E a te, cogliendo l'assenza il tempo,
funesta rete Clitennestra tese".
"Quindi troppa tu stesso", ei rispondea,
"Con la tua donna non usar dolcezza,
né il tutto a lei svelar, ma parte narra
de' tuoi secreti a lei, parte ne taci,
benché a te dalla tua venir disastro
non debba: ché Penelope, la saggia
figlia d'Icario, altri consigli ha in core.
moglie ancor giovinetta, e con un bimbo,
che dalla mamma le pendea contento,
tu la lasciavi, navigando a Troia:
ed oggi il tuo Telemaco felice
già s'asside uom tra gli uomini, e il diletto
padre lui vedrà, un giorno, ed egli al padre
giusti baci porrà sovra la fronte.
Ma la consorte mia né questo almeno
mi consentì, ch'io satollassi gli occhi
nel volto del mio figlio, e pria mi spense.
Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo
serba del petto: le native spiagge
secretamente afferra, e a tutti ignoto,
quando fidar più non si puote in donna.
Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti,
dove questo mio figlio i giorni tragga?
In Orcomeno forse? O forse tienlo
Pilo arenosa, o la capace Sparta
presso re Menelao? Certo non venne
finor sotterra il mio gentil Oreste".
Ed io: "Perché di ciò domandi, Atride,
me, cui né conto è pur se Oreste spira
le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?
lode non merta il favellare al vento".
Così parlando alternamente, e il volto
di lagrime rigando, e il suol di Dite,
ce ne stavam disconsolati: ed ecco
sorger lo spirto del Pelìade Achille
,
di Patroclo, d'Antìloco e d'Aiace,
che gli Achei tutti, se il Pelìde togli,
di corpo superava e di sembiante.
mi riconobbe del veloce al corso
Eacide l'imago; e, lamentando:
"O -disse- di Laerte inclita prole,
qual nuova in mente, sciagurato, volgi
macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?
Come osasti calar ne' foschi regni,
degli estinti magion, che altro non sono
che aeree forme e simulacri ignudi? "
"Di Peleo", io rispondea, "figlio, da cui
tanto spazio rimase ogni altro Greco,
Tiresia io scesi a interrogar, che l'arte
di prender m'insegnasse Itaca alpestre
sempre involto ne' guai, l'Acaica terra
non vidi ancor, né il patrio lido attinsi.
Ma di te, forte Achille, uom più beato
non fu, né giammai fia. Vivo d'un nume
t'onoravamo al pari, ed or tu regni
sovra i defunti.
Puoi tristarti morto?"
"Non consolarmi della morte", a Ulisse
replicava il Pelìde. "Io pria torrei
servir bifolco per mercede, a cui
scarso e vil cibo difendesse i giorni,
che del Mondo defunto aver l'impero
.
Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre
parlami in vece. Nelle ardenti pugne
corre tra i primi avanti? E di Pelèo
del mio gran genitor, nulla sapesti?
Sieguon fedeli a reverirlo i molti
Mirmìdoni, o nell'Ellada ed in Ftia
spregiato vive per la troppa etade,
che le membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo
sotto i raggi del Sol più non mi lice:
ché passò il tempo che la Troica sabbia
d'esanimi io covrìa corpi famosi,
Proteggendo gli Achei. S'io con la forza
che a que' giorni era in me, toccar potessi
per un istante la paterna soglia,
a chïunque oltraggiarlo, e degli onori
fraudarlo ardisse, questa invitta mano
metterebbe nel core alto spavento".

..........
...d'Achille alle veloci piante
per li prati d'asfodelo vestiti
l'alma da me sen giva a lunghi passi,
lieta, che udì del figliuol suo la lode.
D'altri guerrieri le sembianze tristi
compariano; e ciascun suoi guai narrava.
Sol dello spento Telamonio Aiace
stava in disparte il disdegnoso spirto
perché vinto da me nella contesa
dell'armi del Pelide appo le navi.
Teti, la madre veneranda, in mezzo
Le pose, e giudicaro i Teucri e Palla.
Oh côlta mai non avess'io tal palma,
se l'alma terra nel suo vasto grembo
celar dovea sì glorïosa testa,
Aiace, a cui d'aspetto e d'opre illustri,
salvo l'irreprensibile Pelìde
non fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!
Io con blande parole: "Aiace", dissi,
"figlio del sommo Telamon, gli sdegni
per quelle maledette arme concetti
dunque né morto spoglierai? Fatali
certo reser gli dèi quell'arme ai Greci,
che in te perdero una sì ferma torre.
Noi per te nulla men, che per Achille,
dolenti andiam; né alcuno n'è in colpa, il credi:
ma Giove, che infinito ai bellicosi
Danai odio porta, la tua morte volle.
Su via, t'accosta, o re, porgi cortese
l'orecchio alle mie voci, e la soverchia
forza del generoso animo doma".
Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,
fra l'altre degli estinti Ombre si mise:
èur, seguendolo io quivi, una risposta
forse data ei m'avrìa; se non che voglia
altro di rimirar m'ardea nel petto.
Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro
figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro
stringendo in man, tenea ragione all'ombre
che tutte, qual seduta e quale in piedi,
conti di sé rendeangli entro l'oscura
di Pluto casa dalle larghe porte.
Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,
che uccise un dì sovra i boscosi monti,
or gli spettri seguìa de' prati inferni
per l'asfodelo in caccia; e maneggiava
perpetua mazza d'infrangibil rame.
Ecco poi Tizio, della Terra figlio,
che sforzar non temé l'alma di Giove
sposa, Latona, che volgeasi a Pito
per le ridenti Panopèe campagne.
Sul terren distendevasi, e ingombrava
quando in dì nove ara di tauri un giogo:
e due avvoltoi, l'un quinci, e l'altro quindi,
ch'ei con mano scacciar tentava indarno
rodeangli il cor, sempre ficcando addentro
nelle fibre rinate il curvo rostro.
Stava là presso con acerba pena
Tantalo in piedi entro un argenteo lago,
la cui bell'onda gli toccava il mento.
Sitibondo mostravasi, e una stilla
non ne potea gustar: ché quante volte
chinava il veglio le bramose labbra,
tante l'onda fuggìa dal fondo assorta,
sì che apparìagli ai piè solo una bruna
da un Genio avverso inaridita terra.
Piante superbe, il melagrano, il pero,
e di lucide poma il melo adorno,
e il dolce fico, e la canuta oliva,
gli piegavan sul capo i carchi rami;
e in quel ch'egli stendea dritto la destra
vêr le nubi lanciava i rami il vento.
Sìsifo altrove smisurato sasso
tra l'una e l'altra man portava, e doglia
pungealo inenarrabile. Costui
la gran pietra alla cima alta d'un monte,
urtando con le man, coi piè pontando,
spingea: ma giunto in sul ciglion non era,
che, risospinta da un poter supremo,
rotolavasi rapida pel chino
sino alla valle la pesante massa.
Ei nuovamente di tutta sua forza
su la cacciava: dalle membra a gronde
il sudore colavagli, e perenne
dal capo gli salìa di polve un nembo.
d'Ercole mi s'offerse al fin la possa,
anzi il fantasma: però ch'ei de' numi
giocondasi alla mensa e cara sposa
gli siede accanto la dal piè leggiadro
Ebe, di Giove figlia e di Giunone,
che muta il passo, coturnata d'oro.
schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno,
come volanti augei da subitana
tema compresi; ed ei fosco, qual notte,
con l'arco in mano, e con lo stral sul nervo,
ed in atto ad ognor di chi saetta,
orrendamente qua e là guatava.
Ma il petto attraversavagli una larga
d'ôr cintura terribile, su cui
storïate vedeansi opre ammirande,
orsi, cinghiai feroci e leon torvi,
e pugne, e stragi, e sanguinose morti;
cintura, a cui l'eguale, o prima o dopo,
non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.
mi sguardò, riconobbemi, e con voce
lugubre: "O", disse, "di Laerte figlio,
Ulisse accorto, ed infelice a un'ora,
certo un crudo t'opprime avverso fato,
qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni.
Figliuol quantunque dell'Egìoco Giove,
pur, soggetto vivendo ad uom che tanto
valea manco di me, molto io soffersi.
fatiche gravi ei m'addossava, e un tratto
spedimmi a quinci trarre il can trifauce,
che la prova di tutte a me più dura
sembravagli; ed io venni, e quinci il cane
trifauce trassi ripugnante indarno,
d'Ermete col favore e di Minerva".
Tacque, e nel più profondo Erebo scese.
Di loco io non moveami, altri aspettando
De' prodi, che spariro, è omai gran tempo.
E que' due forse mi sarien comparsi,
Ch'io più veder bramava, eroi primieri,
Teseo e Piritoo, glorïosa prole
Degl'immortali dèi. Ma un infinito
Popol di spirti con frastuono immenso
Si ragunava; e in quella un improvviso
Timor m'assalse, non l'orribil testa
Della tremenda Gòrgone la diva
Proserpina invïasse a me dall'Orco.
Dunque senza dimora al cavo legno
Mossi, e ai compagni comandai salirlo,
E liberar le funi; ed i compagni
Ratto il salìano, e s'assidean su i banchi.
Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno
Mandava innanzi d'Ocean su l'onde:
Poscia quel, che levossi, ottimo vento.
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ENEA
Nel VI Libro dell'Eneide Virgilio descrive la discesa agli inferi di Enea
Enea, allontanandosi da Cartagine e mirando ad essa lungo il vasto mare, vedendo le fiamme del rogo appiccato da Didone fu preso da un triste presentimento, ma il suo pensiero fu subito distolto dal viaggio che lo attendeva: per evitare una tempesta i troiani decisero di fermarsi a Drepano poiché ricorreva l'anniversario della morte di Anchise, Enea bandì quindi dei giochi funebri in onore del padre. Nel frattempo Giunone, allo scopo di danneggiare i Troiani, sotto mentite spoglie, incitò le donne Troiane a bruciare le navi per restare in Sicilia e ricominciare lì una nuova vita. L'incendio distrusse quattro delle venti navi della flotta capitanata da Enea. Anchise apparve in sogno al figlio e gli consigliò di partire subito, lasciando in Sicilia le donne e i bambini, aggiunse inoltre che l'eroe, prima di dirigersi in Italia, avrebbe dovuto scendere nell'Ade per incontrarlo. Le navi rimaste integre salparono e durante la notte il Sonno, Hupnos (u per la pronuncia esatta secondo il greco antico), fece addormentare Palinuro, il nocchiero della nave di Enea, che morì cadendo in mare. La flotta approdò a Cuma, Enea, come gli era stato consigliato da Eleno (Uno dei figli di Priamo che aveva avuto da Apollo il dono della profezia e che sopravvisse alla guerra di Troia perché, prima della sua caduta, aveva lasciato la città per un contrasto col padre, dal quale non aveva ottenuto la mano di Elena dopo la morte del fratello Paride; secondo alcune versioni del mito regnò in Epiro insieme ad Andromaca, la vedova di Ettore), chiese alla profetessa del dio Apollo, la Sibilla Cumana
Spoiler
Profetessa che agiva in stato di trance, o, secondo la concezione greca, invasata dal dio Apollo. Le Sibille erano spesso legate al culto oracolare di un santuario: la Sibilla Cumana era connessa con una pratica divinatoria istituzionale dei Romani, che consisteva nella consultazione di certi libri che si dicevano scritti da lei, i libri sibillini appunto, e acquistati dal re Tarquinio, la tradizione è discorde sull'identificazione di questi con il Prisco o con il Superbo. Vari miti mettevano in relazione il dio Apollo con l'una o l'altra Sibilla. Secondo una versione mitica si tratterebbe di un'unica Sibilla che aveva ottenuto da Apollo l'immortalità e compariva in tempi diversi nei diversi luoghi.
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del suo futuro e del futuro della sua impresa, ella rispose che i pericoli del mare erano finiti: egli sarebbe arrivato nel Lazio dove avrebbe dovuto affrontare nuove guerre e combattere contro un avversario pari per forza al glorioso Achille, Enea poi sarebbe ancora stato perseguitato da Giunone a causa di una donna straniera. Consigliò all'eroe troiano di non perdersi d'animo, poichè avrebbe trovato aiuti, il primo dei quali sarebbe stato fornito da una città greca. Enea chiese quindi alla Sibilla di poter visitare il regno dei morti, la profetessa disse che prima avrebbe dovuto procurarsi un ramo d'oro, strappandolo, col favore del Fato, da un albero che cresceva in un foltissimo bosco e offrirlo poi a Proserpina per favorire la propria discesa nell'Ade: Enea, con l'aiuto della madre Venere, riuscì a trovare e a spezzare il ramo, poi insieme alla Sibilla compirono i riti prescritti e fu guidato da lei  nell'Oltretomba. E' da sottolineare che il rito che Enea compie prima di entrare nel regno dei morti è riconducibile ai misteri orfici ed eleusini.
Enea e la Sibilla giunsero al vestibolo dell'Inferno, dove apparirono il pianto, i rimorsi, le malattie, le tre Furie o Erinni, le personificazioni dei mali dell'umanità, e poi figure mostruose tra cui i Centauri. I due proseguirono giungendo alle rive dell'Acheronte, il torbido fiume sulle cui rive si radunavano le anime. Tra le anime degli insepolti, oltre ad antichi eroi, Enea vede Palinuro, il nocchiero della nave di Enea caduto in mare durante la navigazione verso l'Italia, che, angosciato perchè il suo corpo era rimasto insepolto, pregò Enea di dargli una degna sepoltura. Caronte avrebbe voluto impedire il passaggio ad Enea, ma la Sibilla lo convinse a traghettarli sull'altra sponda del fiume infernale con la sua barca mostrandogli il ramo d'oro: così Enea e la Sibilla giunsero sulla fangosa riva dell'Antinferno. Enea ebbe così modo di incontrare un altra creatura infernale, Cerbero, un mostro con tre teste, le cui criniere erano costituite da serpenti, e Minosse, il famoso re di Creta che, secondo il mito, era stato nominato giudice infernale come premio per il suo profondo senso di giustizia. Proseguendo, nella pianura dei Campi del Pianto, tra le anime di coloro che si uccisero per amore, Enea incontrò Didone che si allontanò da lui verso la Selva dei Morti, dove Sicheo (il suo primo sposo) l' attendeva. Poco oltre i Campi del Pianto si trovavano, in un luogo appartato, le ombre dei guerrieri famosi, tra le quali quelle di Déifobo, figlio di Priamo, Enea poi giunse nel Tartaro, la parte dell'Inferno in cui sono puniti i colpevoli dei peccati più gravi, alla cui porta la Sibilla fece affiggere a Enea il ramoscello d'oro; oltrepassatolo, giunsero ai Campi Elisi, dove risiedevano le anime dei pii e dei giusti, tra questi si trovava anche Anchise. L'incontro tra padre e figlio è pieno di commozione, ma subito dopo l'attenzione di Enea si rivolse verso le numerose anime che sostano in quella vallata, tra cui spiccava il mitico cantore Orfeo. Per dare una risposta esauriente al figlio che domandava riguardo a queste, Anchise illustrò la teoria della reincarnazione secondo cui l'universo era vivificato da uno spirito che unendosi alla materia la animava durante la vita, però rimanendo chiuso nel corpo si contamina, quando il corpo moriva l'anima tornava libera, ma doveva purificarsi nell'Oltretomba per tornare pura e reincarnarsi nuovamente in un altro corpo: trascorsi mille anni, quando l'anima era di nuovo pura, beveva l'acqua del fiume Lete, che donava la dimenticanza totale della vita precedente, dopo era pronta per tornare in un corpo nuovo (la reincarnazione faceva parte dei misteri orfici e da non dimenticare in proposito è il mito orfico di Er descritto da Platone). Le anime che Enea vide erano quelle dei futuri eroi di Roma, che Anchise gli indicava descrivendoli nella loro progressione cronologica, tra essi i re Albani, Romolo e Augusto (che avrebbe riportato nel Lazio l'età dell'oro e portato l'impero agli estremi confini del mondo), oltre ai re di Roma, vide Cesare, Pompeo, Catone, Emilio Gracco, gli Scipioni e i Fabi. Al termine della presentazione dei futuri discendenti, Anchise espresse il senso di civiltà di Roma, che si configurava come la missione tra i popoli: dominare il mondo e governarlo secondo giustizia.
Dopo aver rivelato al figlio ciò che lo attendeva nel Lazio, Anchise accompagnò la Sibilla ed Enea all'uscita dell'Ade.
« Ultima modifica: 15 Maggio, 2010, 08:08:06 am da tisifone75 »
Il fiore sboccia e appassisce, la stella brilla nella notte per poi sbiadire: ogni cosa ha una fine...la vita umana è soltanto un fugace battito di ciglia
Caldo di luce il seme in me germoglia, da ghiaccio in foco il cuore mio tramuta, dona la forza, la mente mia rinfranca, e per la dea il braccio mio non stanca!
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O__O interessantissimo!!

ma tu scrivi anche articoli su riviste? le chat noire è una rivista suppongo

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Si caro, mi hanno pubblicato diversi articoli ma è una rivista amatoriale, e inviata gratuitamente su richiesta.
Scrivo ormai da anni e non solo poesie articoli letterari o filosofici ma lo faccio più per me stessa e per la mia grande passione per il mondo antico, ho inviato gli articoli a questa rivista perchè è di un amico di una mia amica, tutto qui, mentre un mio amico ha pubblicato in rete due miei lavori e delle mie poesie ma parte dagli altri non da me pubblicare.
Sono davvero contenta che trovi interessante questo topic :)
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trovo interessante tutta la mitologia, se poi il topic è fatto benissimo e molto approfondito cm fa a non piacermi

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Bene caro, ne sono davvero felice e per la tua gioia
Spoiler
oggi aggiungerò nell'altro mio topic mitologico la mitologia approfondita del segno del leone e la descrizione del suo pianeta dominatore, il Sole, metto in spoiler perchè sarebbe ot qui
[close]
Grazie ancora per il gentile apprezzamento ;)
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Bellissimo topic, scorrevole ed esauriente, nessun appunto da fare. Appena passano ste 5 ore il +1 è assicurato :D

Offline apollo creed

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Cosa aggiungere ai commenti che mi hanno preceduto? Mi unisco nel dire che hai fatto un grande topic :grazie:

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bellissimo topic espa per te
Mu è il Gold Saint più forte.
Myu è lo Specter più forte.

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Re: Nèkuia e\o Catabasi: discesa agli Inferi degli eroi nell mitologia greco-romana
« Risposta #10 il: 07 Dicembre, 2009, 21:35:46 pm »
Grazie a tutti raga LOL
Davvero Grazie Mille LOL
Nii-sama sei tu che sei un amore :cuore:  e Aphro nipotino caro arigatogosaimasu :)
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Offline MARADONAFAN

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Re: Nèkuia e\o Catabasi: discesa agli Inferi degli eroi nell mitologia greco-romana
« Risposta #11 il: 07 Dicembre, 2009, 21:53:57 pm »
Bravissima, meriti un'espansione! :)

Offline tisifone75

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Re: Nèkuia e\o Catabasi: discesa agli Inferi degli eroi nell mitologia greco-romana
« Risposta #12 il: 15 Dicembre, 2009, 23:49:01 pm »
Grazie davvero Maradonafan :cuore:
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Offline Cristian di Gemini

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