Saint Seiya GS - Il Forum della Terza Casa


Autore Topic: KAIROS  (Letto 15707 volte)

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Offline Kid Chino

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Re: KAIROS
« Risposta #75 il: 12 Febbraio, 2012, 22:10:06 pm »
Giusto. Il titolo va spiegato  :D

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[logged]Dunque, non c'è apparizione dell'altro dio del tempo, in quanto in fondo questo è solo la pura personificazione di un concetto molto importante per i greci, ossia il tempo in senso qualitativo e non semplicemente quantitativo (Cronos). Venivano infatti venerati i Kairoi e non Kairos stesso come divinità, seppur esiste, ovviamente. La spiegazione della parola Kairos può essere vasta, ma mi limito a parlare di quella che ho voluto intendere nel mio libro, ossia la nozione di momento, inteso come momento determinato, in un lasso di tempo indeterminato, in cui avviene qualcosa in cui tutto cambia. Da qui il titolo Kairos che è poi il nome della prima chiave (laddove prima era semplicemente Tempo, in italiano). Ho scelto questo nome perché la prima chiave, quella del Viaggiatore, del protagonista, è proprio quella che permette di trovare le altre, quella che dà inizio a tutto (ma questo è scritto nel libro). In pratica è la chiave che sancisce il momento in cui tutto cambia, il Kairos appunto. Un significato che ovviamente non spiego nelle pagine del libro poiché sarebbe pesante e diciamo "tecnica" come cosa, ma che sono felice di condividere con voi  :D Spero tanto vi piaccia il significato che ho voluto dargli  *plego[/logged]
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Offline Anto di Gemini

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Re: KAIROS
« Risposta #76 il: 12 Febbraio, 2012, 22:15:48 pm »
bellissimo significato e mi fa venire ancora più voglia di leggere tutto il libro mi complimeto nuovamente con te Kid per lo spendido libro che stai scrivendo grande per ora posso darti solo  :+1: ma appena esce il libro volo a comprarlo  :D
« Ultima modifica: 12 Febbraio, 2012, 22:44:02 pm da Anto di Gemini »
Lord of Nightmare a Hellmaster Phibrizio prima di distruggerlo
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Offline Kid Chino

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Re: KAIROS
« Risposta #77 il: 12 Febbraio, 2012, 22:37:43 pm »
 :D Addirittura  :D

Ti ringrazio infinitamente per le tue parole, sei davvero gentilissimo, troppo  :D

Io più che altro spero prima di tutto di riuscire a finirlo. Ora ho ripreso a leggere a tempo pieno e entro un mese massimo finisco di riguardare i capitoli già scritti (che sono 50 per circa 350 pagine) per poi procedere con la terza e ultima parte di quello che dovrebbe essere il primo di 8 volumi nelle mie intenzioni. Poi spero davvero tanto di riuscire a trovare qualche folle che me lo pubblichi, sarebbe bello solo per poter vedere il mio nome scritto su qualcosa di finito, di esposto da qualche parte, anche se nella libreria dello sperduto centro abitato di Vattelapesca  :D. Ad ogni modo, anche se non riuscissi a pubblicarlo, lo farei da me grazie al sito de ilmiolibro.it e almeno potrei venderlo on-line e su ordinazione alla Feltrinelli  :ok: Ma soprattutto spero che, anche se non dovessi riuscire a pubblicarlo, avrò la costanza e la forza, a dispetto delle delusioni, di finire comunque la saga così come mi sono preposto. Di farlo per me stesso. Del resto l'unico modo per fare le cose davvero bene è farle consapevoli che siano per noi stessi e non per qualcun altro  :yea:

P.S. Ovviamente ricambio il tuo  :+1: allegando un immenso :grazie:

Offline Lina Lee

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Re: KAIROS
« Risposta #78 il: 13 Febbraio, 2012, 13:10:14 pm »
Una spiegazione a dir poco perfetta del significato che hai voluto dare al termine e del momento stesso che rappresenta (ammetto che quando ho iniziato a leggere la tua spiegazione per un attimo me lo sono immaginata..e quando ho avuto la conferma dalle tue paroel di aver immaginato giusto mi si sono illuminati gli occhi!!!)...
Questo dovrebbe rincuorarti,visto che credo che per chi scrive,avere dei lettori che riescano a percepire appieno ogni minimo significato che lo scrittore stesso da al suo libro (anche non esplicitandoli a volte),sia davvero importante..
Non posso fare altro,come Anto,che darti un  :+1: e continuare a sperare che possa pubblicarlo!!!
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Se ci riesci lo compro e gli faccio la foto nella mia piccola libreria..non sarà quella di Vattelapesca ma spero vada bene lo stesso... :ya: :ya: :ya:
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<<Se i loro cuori diventeranno fragili, sarò il loro appiglio. Se verranno minacciati, sarò il loro scudo. Mi sacrificherò ogni giorno per proteggerli tutti. Ecco perchè sono tornato!>>
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Offline Kid Chino

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Re: KAIROS
« Risposta #79 il: 13 Febbraio, 2012, 13:21:01 pm »
Beh, quella di Vattelapesca è una libreria rinomata e conosciuta in tutto il mondo :P Ma mi accontento anche della tua :P Scherzo ovviamente! E ti ringrazio immensamente per le tue parole e si, quando scrivi qualcosa è davvero bello che gli altri riescano a capire a pieno le tue intenzioni, quello ke volevi dire con le tue parole. È la soddisfazione più grande trasmettere qualcosa a chi legge  :D

Ricambio il  :+1: e attendo con ansia la foto  :D

Offline Kid Chino

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Re: KAIROS
« Risposta #80 il: 14 Febbraio, 2012, 13:43:54 pm »
Scusate il doppio post, ma ho un dubbio amletico. Sono all'università a cazzeggiare aspettando che sia ora di prendere il pullman e mi sono messo a smanettare sul testo della copertina.
Mi hanno consigliato di farlo più scuro, più bronzeo anziché così "giallo". Ho fatto una prova ed è uscito questo:

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Mentre questa è la precedente che ho postato sopra:

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Quale vi piace di più? Quale vi sembra più adatta e più d'impatto? E quale sta meglio con lo sfondo secondo voi?

Io ho già una preferenza, ma vorrei sentire l'opinione di più persone per decidere  :) So che la copertina è l'ultima cosa, ma stavo proprio senza far nulla   :yea: LOL

Offline genesis

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Re: KAIROS
« Risposta #81 il: 14 Febbraio, 2012, 14:10:38 pm »
per me è più d'effetto quella bronzea :uhm: mi sa più di solenne per così dire :uhm:
"tu colui che catturò una stella cadente
oh uomo senz'anima
il tuo cuore è una mia proprietà"

Ogni istante che si ripete è eterno. Questa è la libertà!
La via ti si può aprire solo se credi in te stesso. Saranno le esperienze fatte a dirti qual era la scelta giusta.
Trattenni il respiro vedendo quei capelli neri danzare, mentre la neve scendeva illuminata dalla Luna. Era come un ciliegio che sboccia fuori stagione

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W per Vendetta
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L' umanità de tutte le creature soccomberanno davanti agli indicibili poteri della leggendaria e mutevole Mystic Force degli occhi sbirulini

Siamo noi ad aprire le porte del nostro destino e a proteggere quello che amiamo

Offline Anto di Gemini

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Re: KAIROS
« Risposta #82 il: 14 Febbraio, 2012, 15:09:19 pm »
anche secondo me e meglio quella di bronzo  :D
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Offline Kid Chino

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Re: KAIROS
« Risposta #83 il: 14 Febbraio, 2012, 16:47:52 pm »
Vi ringrazio. Allora seguo il consiglio vostro e della mia amica e metto quella più scusa, che a dirla tutta piace di più anche a me  :D

Offline Lina Lee

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Re: KAIROS
« Risposta #84 il: 14 Febbraio, 2012, 19:37:41 pm »
OK,sono arrivata nettamente in ritardo... :ehm: :ehm:
Comunque anche a me piace quella più bronzea,confermo quanto già detto da Gen,dà l'idea di qualcosa di più solenne!!!! :pucci: :pucci:
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Offline arles83

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Re: KAIROS
« Risposta #85 il: 28 Febbraio, 2012, 16:49:28 pm »
Bravo Kid Chino!! Sono proprio contento per questo topic!! :yea:

 :+1: per te

Offline Kid Chino

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Re: KAIROS
« Risposta #86 il: 02 Marzo, 2012, 21:58:07 pm »
Signori ecco i primi 6 capitoli. Sono gli stessi di prima solo che ci sono alcune correzioni in alcuni casi e cambia qualche dettaglio della trama per renderla il più possibile coerente con i suoi sviluppi. Inserirò fino al capitolo 13 questa volta credo, quindi all'incirca 100 pagine :) Una bella fetta...

PROLOGO:

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PROLOGO

La guerra andava avanti ormai da dieci anni: perché mai un figlio dovrebbe ribellarsi al proprio padre se non per colpe che quest’ultimo ha compiuto nei suoi confronti? Crono, nel corso di quei lunghi anni di sanguinose e inconcludenti battaglie, aveva compreso perché i propri figli lo combattevano. Il Destino aveva ragione ancora una volta, come sempre del resto, e ogni sua azione per deviarne il corso non era stata altro che un’ulteriore spinta verso la sua realizzazione. Nella sua infinita brama di potere, terrorizzato dagli avvertimenti del Destino, li aveva divorati uno a uno, dal primo all’ultimo, tutti tranne uno: il suo prediletto. Per lui aveva rischiato, per lui aveva deciso di poter anche morire. E l’unica conseguenza di quei gesti scellerati era stata, inevitabilmente, la guerra. In molti gli avevano voltato le spalle e ora capiva ognuno di loro; capiva persino sua moglie, che lo aveva tradito e si era schierata contro di lui. Ora, finalmente, aveva aperto gli occhi e sapeva cos’era giusto fare. Era inutile combattere oltre, era inutile continuare a spargere sangue in nome di una causa priva di senso. Del resto Zeus era riuscito a liberare i giganti Ciclopi ed Ecatonchiri dalla loro prigionia e ormai aveva la vittoria in pugno; era solo questione di tempo.
Con quel suo ultimo gesto la guerra sarebbe cessata e Zeus avrebbe finalmente ottenuto ciò che tanto bramava: il dominio su tutto il creato. Col tempo si sarebbe corrotto così come lui aveva già fatto e così come Urano prima di lui. Il potere logora ogni creatura, umana o divina che sia e, forse, un giorno, uno dei suoi figli lo avrebbe spodestato perpetrando quella che stava divenendo una tradizione di famiglia. Quell’ultimo gesto, però, avrebbe anche segnato la sua fine, quale che fosse stata non aveva più importanza; il Destino avrebbe deciso per lui ancora una volta. Tuttavia, non poteva permettere che tale fine toccasse anche all’unico figlio che, nonostante tutto, era sempre rimasto al suo fianco.
«Eccomi, padre, sono venuto appena possibile».
Ogni volta che lo guardava, ogni volta che udiva la sua voce forte e sicura, il suo cuore si riempiva di vergogna per i figli che aveva respinto e che ora, se non avesse compiuto gesti così deplorevoli, sarebbero stati al suo fianco. Allo stesso tempo, però, era anche colmo di orgoglio per colui che invece aveva davanti agli occhi. Era un Dio dall’aspetto maturo e il fisico possente, dai corti capelli neri come la notte e un accenno di barba sul viso. S’inchinò ai piedi del padre, alzando la testa e guardandolo con i suoi occhi neri come il più profondo degli abissi. Il divino padre lo fissò con i suoi, azzurri come il cielo, ricambiando lo sguardo:
«Sei giunto immediatamente al mio cospetto non appena ti ho convocato. Sei perfetto come sempre, figlio mio», Esordì con la voce colma di tristezza e di quell’amarezza di chi sa di dover chiedere perdono. «In questi lunghi anni mi sei sempre stato fedele; hai regnato alla mia destra e combattuto al mio fianco durante le dure battaglie. So bene che il mio posto spetterebbe a te. Sei saggio e possiedi capacità che il tuo rozzo fratello non potrà mai eguagliare, nono-stante la sua grande determinazione. Tuttavia, sappiamo entrambi che questa guerra volge ormai al termine e che la vittoria non sarà nostra. Zeus ha liberato i Ciclopi e questi gli hanno donato la folgore in segno di riconoscenza. Come se ciò non bastasse, è riuscito a liberare anche i giganti dalle cento braccia e ora anch’essi sono schierati dalla sua parte. Il suo esercito è troppo ampio ormai e mi sono giunte voci affidabili secondo le quali pare abbia anche scoperto il segreto dell'Adunamis. È ora che la profezia che mi ha condotto sin qui si compia, finalmente. Mi dispiace privarti di ciò che ti spetterebbe di diritto»
«Non dire così, padre, abbiamo ancora delle speranze, possiamo ancora battere Zeus! Possiamo…»
«Figlio mio, apprezzo il tuo tentativo, ma sai bene che non sono uno stolto. Conosco la realtà dei fatti così come la conosci tu. Non ho bisogno, per quanto te ne sia grato, di farmi chiudere gli occhi per non vedere la mia sconfitta. Nella mia lunga vita ho commesso molti atti vergognosi. Ho affrontato il mio stesso padre e l’ho costretto all’esilio, credendomi nel giusto e non pensando a cosa egli provasse. L’ho assalito senza dargli possibilità di parlare o di comprendere i suoi errori, ma soprattutto ho ripetuto io stesso i suoi sbagli, anzi, li ho addirittura superati, divorando i miei figli per il solo timore di perdere il potere. Non merito neppure di essere qui al tuo cospetto. Ti assicuro, figlio mio, che mi superi grandemente in maestosità e saggezza. Tu meriteresti di governare su tutte le cose, come io avrei voluto: tu, non tuo fratello. Egli è impulsivo e violento, è cresciuto per odiarmi ed è stato addestrato solo per sconfiggermi. Alla fine, è riuscito nel suo intento. Ma è giusto così, accetto le mie colpe e accetterò qualunque via sarà decisa per espiarle. Ma tu, figlio mio, tu non dovrai essere schiavo del mio stesso destino, tu dovrai avere un futuro. Permettimi, con quest'ultimo gesto, di andarmene degnamente e di salvare l'unico figlio che è sempre stato al mio fianco».
Commosso dal discorso del padre, il dio non riuscì a trovare le parole giuste. Si limitò a fare un cenno con il capo e ad ascoltare le sue parole in silenzio, guardando con occhi colmi di affetto e rispetto colui che aveva sempre ammirato e seguito:
«Tu sarai colui che condurrà Zeus da me. Stanotte fingerai di uscire di soppiatto e ti recherai al cospetto dei tuoi fratelli, chiedendo loro di accettarti tra le loro fila perché hai compreso quanto corrotto sia il mio animo e hai dunque deciso di passare dalla loro parte per portare a nuova vita questo mondo insieme a Zeus. Esporrai allora il tuo piano: con l’elmo che dona l’invisibilità costruito dai ciclopi t’introdurrai nella mia residenza e aprirai le porte per concedere loro di entrare. A questo punto, Poseidone e Zeus si presenteranno al mio cospetto e mentre tu, invisibile ai miei occhi, mi prenderai alle spalle, loro mi finiranno. A quel punto la mia vita sarà nelle mani dei miei amati figli. Qualunque sarà la vostra decisione, io la affronterò sereno perché ti saprò salvo».
«Ma» Il dio era sconvolto, senza parole: «Padre» Provò a dire quasi balbettando, «Non posso fare questo! Non posso voltarti le spalle ed essere la causa della tua disfatta! Non…»
«Taci! Ti prego», Lo interruppe brusco Crono, «Accetta la mia decisione di tua spontanea volontà e non temere, non ti porterò rancore. Sarò sempre orgoglioso di aver combattuto al fianco di un guerriero forte e valoroso come te».
«Non per mancarti di rispetto, padre, ma non posso farlo. Non posso aiutare i miei fratelli a vendicarsi di te e vivere per l’eternità con questo terribile fardello. Non lascerò te e gli altri Titani in balia delle follie di Zeus!»
«Non hai altra scelta. I miei fratelli e gli altri che ancora mi sono rimasti fedeli sono a conoscenza di quanto ti ho detto e hanno accettato di seguirmi. Apprezzo la tua fedeltà, ti fa onore, ma è giunto il momento per me di essere non solo un dispotico re, ma un padre, tuo padre. Perciò va e non deludere questo vecchio».
Il dio capì che ormai Crono aveva preso la sua decisione e dato il suo ordine. Non avrebbe mai dimenticato quello che aveva fatto e stava facendo per lui. Avrebbe accettato e compiuto la sua missione come aveva sempre fatto, ma non avrebbe permesso che morisse: gli avrebbe salvato la vita, così come egli stava facendo con lui. In qualche maniera avrebbe trovato il modo:
«Si, padre» Disse solenne, «Farò come desideri».
Pronunciate quelle poche, lapidarie parole, s’incamminò, voltando le spalle a colui che tanto amava, certo che un giorno si sarebbe trovato nuovamente al suo cospetto.
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CAPITOLO 1

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CAPITOLO α

Le auto scorrevano veloci accanto al finestrino e camion enormi trasportavano chissà cosa chissà dove. Il Sole splendeva alto nel cielo di quel primo giorno di primavera, ma lui era rinchiuso in un pullman pieno di ragazzini. Avrebbe preferito qualsiasi cosa a quel supplizio, ma da molto tempo ormai era diventata la prassi per lui. Da quando era nato non aveva fatto che girare per luoghi come quello: anticaglie sparse ovunque, mura dimentiche di quanto fossero alte e solenni un tempo, costruzioni crollate del tutto o in parte, memorie di storie di un passato talmente lontano che non vale la pena di essere ricordato. E se da ragazzino aveva provato almeno un pizzico di curiosità, ora, dall’alto dei suoi diciott’anni, si sentiva in diritto di dire che nulla lo interessava meno di quelle noiosissime giornate.
Intanto scrutava fuori dal finestrino, osservando il tripudio dell’uomo contemporaneo: auto di ogni tipo trasportavano persone di ogni tipo, palazzi imponenti si stagliavano sul panorama, enormi navi ormeggiate al porto si intravedevano in lontananza e l’asfalto caldo sotto di lui ribolliva al passare di tutte quelle vetture. Tutto si univa in un perfetto intreccio di natura e mente, tutto funzionava per il bene dell’uomo, che era riuscito a sottomettere ciò che aveva intorno per il proprio benessere. Sicuramente c’era qualcosa che sarebbe stato meglio rivedere, ma nulla è perfetto, tantomeno ciò che è artificiale. Sarebbe stato il progresso a correggere le imperfezioni, il continuo progresso avrebbe eliminato via via ciò che non andava. Il progresso trasforma la realtà, migliorandola: un processo storico, naturale, qualcosa di inevitabile.
Forse il suo era solo un riflesso condizionato, forse odiava tutto ciò che era “antico” perché il padre lo amava o forse era talmente stanco di vederlo che alla fine era arrivato a provare solo nausea e odio nei suoi confronti. Odiava quei luoghi. Nient’altro che rovine di antiche modernità ormai superate, niente di interessante da cui poter prendere spunti, niente di materialmente utile e quindi tutto completamente inutile. Il passato è passato e tale dovrebbe rimanere, è inutile guardarvi. Nella vita bisogna guardare al presente e pensare al futuro. Ne era fermamente convinto e nulla avrebbe cambiato il suo modo di vedere, nonostante in molti ci avessero già provato.
«Cuma era una delle più antiche colonie della Magna Grecia e una delle più lontane dalla madrepatria. Si pensa che sia stata fondata intorno al 740 a.C., anche se la più antica documentazione archeologica risale al 725-720 a.C. …»
Lui era uno di quelli: continuava a leggere da quella che era palesemente una pagina di Wikipedia che non era nemmeno riuscito a camuffare. L’esempio perfetto della fine che si fa vivendo nel passato, sprecando la propria vita dietro ricerche assurde e senza senso, sacrificando ogni cosa per inseguire antiche iscrizioni e stupide reliquie. Suo padre era un uomo di mezza età, deluso e insoddisfatto della propria vita, imbruttito dalle continue delusioni e dai continui fallimenti come insegnante, come padre, come uomo. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non vederlo più, pur di non provare più quel senso di vergogna che lo attanagliava ogni volta al solo pensiero di essere suo figlio. A volte, guardandolo, provava pena, a volte disprezzo, talvolta rabbia. Quando lo aveva accanto capiva di non essere per lui il figlio che avrebbe voluto avere, ma questo non gli importava più di tanto, perché neanche lui era il padre che aveva sempre desiderato. Eppure ogni volta si sentiva a disagio vedendo quanto egli provasse ad esserlo. Ma oramai era tardi per recuperare: troppi anni di ingiustizie, troppi anni di solitudine, troppi anni senza la presenza di qualcosa di importante, di qualcuno che potesse sostenerlo nei momenti di difficoltà e che potesse consigliarlo quando ne avesse bisogno, troppi anni di nulla. Matteo osservava l’imponente figura di quell’uomo che un tempo aveva amato e ammirato, ma che ora odiava con tutto se stesso. Gli vennero alla mente parole che pochi giorni prima aveva letto o sentito da qualche parte:
“Si comprende il dolore solo quando si perde qualcosa a cui si tiene veramente; si comprende l’odio solo quando si è amato intensamente. Nulla di più vero,” si disse.
Immerso nei suoi pensieri, vedeva le labbra del padre muoversi nel pronunciare parole che però non udiva e i suoi occhi scorrere sul foglio, attenti a non perdere una singola sillaba. Si estraniò talmente tanto da quella realtà che un vuoto totale lo avvolse: non sentiva più neanche gli schiamazzi dei ragazzini, come se improvvisamente fosse finito in una campana di vetro che non permetteva ai suoni di entrare. Non capiva cosa stesse accadendo né perché, ma non gli importava, anzi, gli andava benissimo: niente più stupidaggini, niente più baccano, niente più suoni per un po’, solo immagini prive di qualsiasi importanza.
Poi, d’improvviso, un fischio assordante spezzò quel finto silenzio, poi un altro si sovrappose, ancora più forte, poi un altro ancora. Si avvicinavano veloci e possenti, sentiva le orecchie scoppiare. Tentò di pararsi con le mani e involontariamente emise un urlo di dolore. Poi di nuovo il silenzio, questa volta non quello immaginario che solo lui avvertiva, ma un silenzio reale, colmo di tensione, la quiete prima della tempesta. E poi il caos. Un boato fragoroso poco distante, un fumo denso che si alzava e le vibrazioni che correvano veloci nell’aria accompagnate da un suono sinistro. Meno di un secondo e il vetro si frantumò come colpito da cento martelli. Balzò indietro, urlando come un ossesso e tentando di schivare i frammenti che schizzavano in aria, graffiandolo e ricadendo ovunque tutt’intorno. Avvertiva il pullman che sbandava e intanto continuava a urlare a intermittenza, non appena riusciva a trovare il fiato. Poi, nuovamente, tutto si calmò. Lentamente alzò la testa e si guardò intorno: tutti erano immobili, intorno a lui ogni cosa era cosparsa di sangue e davanti ai suoi occhi, disteso in un lago cremisi, c’era suo padre, inerme. Chiuse istintivamente gli occhi alla vista di quella visione orribile. Cos’era stato? Poteva essere solo un incidente? Che diavolo era successo lì fuori? Suo padre era…
Riaprì lentamente gli occhi, temendo quasi di rivedere la scena che aveva appena evitato, ma quello che gli si parò davanti non era ciò che ormai si aspettava: era in piedi, al centro del pullman, gli sguardi di tutti rivolti verso di lui. Era sceso un silenzio tombale. Suo padre era in piedi davanti a lui, tenendogli le mani sulle spalle, il viso terrorizzato e il fiato mozzato dalla paura:
«Matteo» Tentò di chiamarlo, «Matteo, stai bene?»
«Io» Balbettò, «Io» Non riusciva a riprendersi: «Cosa è successo?»
«Hai iniziato a urlare e sei saltato dal sedile. Urlavi e ti dimenavi come se» Tentò di trovare le parole giuste, «Come se fossi terrorizzato».
Non riusciva a capire cosa stava accadendo:
«Il vetro è saltato, il pullman ha sbandato e tu» Si bloccò: «Tu… tu sei morto, sono morti tutti» Disse con tono sempre più basso e angosciato.
I sussurri iniziavano a serpeggiare tra i presenti e pian piano il pullman si riempì di voci e di ipotesi su cosa fosse accaduto. Forse era impazzito, forse era solo uno scherzo di pessimo gusto, forse si era solo addormentato e aveva fatto un terribile incubo. Tutti lo guardavano, ma nessuno gli rivolgeva la parola, neanche i professori. Riusciva a distinguere ogni singolo sguardo: incredulità, compassione, addirittura sospetto e diffidenza, ma nessuno gli chiedeva cosa esattamente avesse visto o sentito o, più semplicemente, come si sentisse. Si limitavano semplicemente ad abbassare lo sguardo quando lui li guardava o a far finta che non fosse successo nulla. Si sedette al posto di suo padre, in prima fila, volgendo la testa al suolo e facendo cadere lo sguardo nel vuoto, mentre tutto proseguiva con terrificante naturalezza. Il motore rombava di nuovo e la strada scorreva veloce sotto di lui. Gli schiamazzi erano tornati, la lettura cantilenante pure.
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CAPITOLO 2

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CAPITOLO β

Erano ore che era lì, fermo a guardare. Lo sguardo tradiva il suo animo. Sotto i suoi piedi la sabbia rossa ricopriva il terreno roccioso e di fronte a lui un enorme vulcano dalle impraticabili pareti eruttava senza sosta, scagliando lava e massi tutt’intorno. Un fiume vorticoso lo cingeva con le sue acque di fuoco che trascinavano in circolo enormi pietre, consumandole lentamente. Alla base del vulcano vi era un’immensa città, circondata da tre cerchia di mura. Dal suo interno provenivano terribili lamenti contornati da risa stridule e pungenti, dal sapore malvagio. Il cielo dentro le mura era cosparso di nuvole nere, squarciate da lampi e fulmini minacciosi, accompagnati da una copiosa e sinistra pioggia di fuoco e sangue. L’aria era pervasa di crudeltà e le mura erano talmente alte da impedire ad occhi indesiderati di poterle scavalcare e di vedere cosa accadeva al loro interno. L’unica cosa visibile di quell’inquietante città era una torre altissima, di ferro, posta esattamente al centro. Non si riusciva a scorgere la sua sommità, cosa vi fosse lo si poteva soltanto immaginare. Colpi di frusta scandivano il tempo e lo stridore del ferro e il rumore di catene trascinate accompagnavano i suoi pensieri. D’improvviso comparvero due orribili creature grondanti sangue, che presero a fluttuare intorno alle mura, sbattendo violentemente le loro enormi ali. Tenevano una torcia nella mano sinistra e una frusta nella destra; volavano in circolo, godendo del sangue che cadeva abbondante e riempiendo l’aria con sinistre risate.
«Mio signore, volevo informarla che la divina Persefone è appena uscita dal Regno» disse una voce familiare alle sue spalle.
«Oh. Grazie Caronte».
Aveva risposto, ma non aveva distolto lo sguardo da ciò che stava osservando, né aveva smesso di pensare a ciò che si trovava all’interno di quell’orribile città e che lui tanto agognava.
«Mio signore, se mi permette…».
«Lo so Caronte» lo interruppe, «Lo so bene. Non serve che tu me lo ripeta ancora, amico mio, ma per me essere qui è come stargli vicino».
«È ora che lei si rassegni» protestò il vecchio, «Sono millenni che il suo divino padre è rinchiuso lì dentro e lei sa che a noi non è concesso entrarvi. Solo quei morti possono».
«Già. Solo loro».
Si fermò, vagando per un attimo tra i suoi cupi pensieri:
«Torna alle tue mansioni ora» disse sforzandosi di fingere di sentirsi bene, «Le anime saranno in attesa. Ti chiedo scusa per il disturbo».
Udito ciò, il vecchio annuì col capo e si allontanò da quel luogo maledetto trascinandosi sul suo logoro bastone. Il viso di Ade si fece corrucciato e ancor più pensieroso. Continuava a non distogliere gli occhi da quell’orrendo spettacolo. Una di quelle creature alate planò poco distante dal suo capo e una goccia di sangue cadde sui suoi abiti. Nonostante fosse il dio degli Inferi, continuava a pensare che quello che aveva davanti agli occhi era davvero un luogo spaventoso.
«Io ho fatto una promessa a me stesso, padre. E stai pur certo che un giorno la manterrò».
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CAPITOLO 3

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CAPITOLO γ

Continuava a rivedere nella sua mente quelle assurde immagini e a rivivere quei terribili momenti. Non appena chiudeva gli occhi, anche solo per un misero secondo, vedeva come in un flash l’immagine di suo padre in un lago di sangue. Lo stomaco continuava ad attorcigliarsi su se stesso per il disgusto e la bile continuava a salire alla gola.
Erano arrivati da poco a destinazione, ma per lui, in quel momento, un luogo valeva l’altro: trascinava le gambe seguendo la massa di ragazzini che aveva davanti e fissava con sguardo vuoto i loro comportamenti, i loro gesti, cercando di distrarsi. Erano tutti eccitati: camminavano felici e spensierati, come se nulla fosse accaduto.
«Il lago d’Averno prese il nome da un’oscura e profonda voragine (attualmente non identificata) presente nelle sue vicinanze ed emanante vapori sulfurei la quale, secondo la religione greca e poi romana, era un accesso all'Oltretomba, regno del dio Plutone. Per tal motivo gli Inferi romani (l'Ade greco) si chiamano anche Averno».
Incurante di tutto e tutti, il professore continuava la sua cantilenante lettura, seguito dai pochi che gli prestavano attenzione. Matteo era costretto a restare in quell’esiguo gruppo e camminava lungo la sponda del lago guardandosi intorno, non prestando alcuna attenzione alle spiegazioni, ma cercando solo di recuperare pian piano almeno un pizzico di serenità. In fondo poteva essere stato solo un brutto sogno, magari si era appisolato un attimo senza accorgersene, o forse era uno scherzo tiratogli dello stress. Ad ogni modo era inutile stare lì a rimuginare; desiderava solo non rivivere più un’esperienza simile.
Senza rendersene conto aveva rallentato la sua camminata e il gruppo lo aveva ormai distanziato. Si affrettò per raggiungerlo, ma più allungava il passo più avvertiva la fastidiosa sensazione di essere osservato. Si voltò di scatto, convinto di trovare qualcuno alle sue spalle. Era solo: dietro di lui suo padre e la scolaresca che si allontanavano, davanti a lui il lago, calmo e piatto. La brezza leggera increspava dolcemente la sua superficie, facendo ondeggiare lievemente l’acqua e un delicato bagliore pulsava dal centro, proveniente dal fondo. La luce cresceva a intermittenza, a intervalli regolari, quasi come fosse il ticchettio scintillante di un orologio.
“No”, pensò. “Di nuovo no!”
Disperato si voltò, deciso ad ignorare quello che aveva appena visto, cercando di convincere se stesso che fosse un’altra specie di “visione” folle come quella del pullman. Si aspettava da un momento all’altro qualche fischio, qualche urlo, qualcosa di orrendo e spaventoso, ma l’unica cosa che continuava a sentire era quello strano senso di soggezione; continuava ad avvertire quella fastidiosa sensazione di avere degli occhi puntati addosso. L’apprensione cresceva, la paura anche, e proprio per questo non voleva voltarsi, non voleva guardare quella luce alle sue spalle; voleva raggiungere il gruppo e continuare come se nulla stesse accadendo.
Improvvisamente, uno strano suono di ridondanza iniziò a espandersi nell’aria sempre più insistente e l’acqua cominciò ad emanare sempre più luce. Sempre più suono, sempre più luce; ancora più suono, ancora più luce. In pochi secondi, l’intero lago risplendeva a intermittenza di un giallo acceso, come illuminato dal fondo da innumerevoli lampade di un colore più vivo del Sole, e il suono vibrava nell’aria a livelli così alti che persino un sordo avrebbe avvertito quel rumore. Si voltò. La luce proveniva da un punto preciso, dalla riva del lago alla sua sinistra, poco più avanti.
Respirò profondamente, sentendo il cuore battere all’impazzata per la tensione. Si avvicinò lentamente per guardare cosa fosse a provocare quello strano fenomeno. Non appena il suo viso venne riflesso sull’acqua, vide qualcosa risalire velocemente dal fondo come spinto da una qualche forza sottomarina. Arrivò a galla in pochi secondi: un piccolo e sottile oggetto d’oro di forma circolare interamente decorato con strane incisioni e con al centro un simbolo che pareva d’avorio, una clessidra. Lo raccolse dallo specchio d’acqua e, nello stesso istante in cui le sue dita solo lo sfiorarono, udì una voce librarsi nell’aria come portata dal leggero vento che spirava in quel luogo:
«Ti stavo aspettando, Viaggiatore» disse. «Finalmente sei giunto, finalmente puoi udire la mia voce».
Era calda, accogliente e lo avvolgeva col suo suono soave:
«Il tuo arrivo mi ha risvegliata dal mio lungo sonno. Era assopita da molto tempo ormai e attendevo l’avvento di questi tristi e funesti tempi, il momento della tua venuta».
Si guardò intorno nervosamente, chiedendosi chi o cosa gli stesse giocando quello scherzo. Non c’era nessuno oltre a lui. Spaventato, lasciò ricadere in acqua l’oggetto che aveva raccolto e indietreggiò di qualche passo, tentando istintivamente di allontanarsi, desiderando solo di svegliarsi e di scoprire che tutto ciò non era altro che uno strano incubo.
«So che mi odi, Viaggiatore», riprese la voce, «E Tu, in cuor tuo, sai che non puoi ignorarmi. Dai peso alla mia voce. Ciò che hai toccato con le tue mani è la chiave per il tuo vero io, un oggetto prezioso che ho custodito durante tutti i lunghi anni della mia vita, aspettando il giorno in cui tu lo avresti raccolto».
«Chi sei?» urlò d'istinto.
«Il mio nome è Deifobe e ti attendevo da tempi immemori. Tuttavia non è qui che incontrerai il tuo destino. Cercami nel luogo in cui pronunciavo i miei vaticini e dove il mio corpo fragile si è consumato con lo scorrere del tempo. Risali l’Acropoli e ripercorri i passi che già furono di altri nella storia. Riconoscerai il cammino, poiché è anche il tuo, e al suo termine mi troverai ad aspettarti».
Con quelle parole, la voce lo congedò senza lasciargli possibilità di risposta. Rimase immobile, attonito: ciò che stava vivendo andava al di là della sua comprensione. Nonostante cercasse di dare una spiegazione plausibile a ciò che gli era accaduto, nonostante cercasse di interpretare quello che aveva ascoltato, nonostante si sforzasse con tutto se stesso di farlo, non ci riusciva, non era in grado di comprendere. Intanto, le parole continuavano a rimbombare incessanti nella sua testa come un disco vecchio e logoro che riproduce sempre lo stesso suono:
 “Risali l’Acropoli… Cercami nel luogo in cui pronunciavo i miei vaticini…”
Le sentiva e risentiva mentre si incamminava il più in fretta possibile verso il resto del gruppo ormai lontano, scioccato e spaventato, cercando di capire a cosa si riferissero. Per quanto odiasse l’antichità ed ogni cosa ad essa collegata, era pur sempre figlio di un archeologo e professore di storia dell’arte e almeno le basi della materia, suo malgrado, le conosceva. L’Acropoli era la parte antica di Cuma, su questo non aveva dubbi. La domanda che gli sorgeva a quel punto era: qual era il luogo sull’Acropoli in cui qualcuno pronunciava dei vaticini? Pensava e ripensava alle varie possibilità, ma era solo uno il posto che gli veniva in mente, l’antro della Sibilla. Quindi quella voce, se il suo ragionamento era corretto e se per assurdo ciò che stava accadendo fosse stato reale, sarebbe dovuta appartenere alla famosa Sibilla Cumana.
Cominciava seriamente a dubitare che tutto ciò fosse semplicemente il frutto di visioni causate da un suo squilibrio mentale. Per qualche motivo cominciava ad insinuarsi in lui il pensiero che, magari, quella voce non fosse un prodotto della sua fantasia e che quella visione che aveva avuto sul pullman avesse un senso, uno scopo. Sentiva qualcosa, una voce nella mente, che lo esortava a credere, lo esortava ad accettare quelle cose come reali. Era una presenza insistente, fastidiosa, di quelle che non si possono ignorare, ma lui aveva tutte le intenzioni di continuare a farlo. La sua razionalità, il suo modo di pensare e di vedere le cose, il suo stesso essere gli impedivano di credere a qualcosa di simile, gli impedivano di poter anche solo pensare di vivere in un mondo in cui esistessero davvero figure come la Sibilla Cumana . Era inconcepibile. Continuava a sforzarsi di rifiutare quando, con la coda dell’occhio, vide qualcosa che richiamò la sua attenzione. Si avvicinò alla riva del lago che correva ancora al suo fianco: lo strano oggetto era lì; galleggiava danzando sull'acqua, seguendo i suoi movimenti. Si abbassò e, con cautela, lo raccolse. Lo stava toccando, lo sentiva, lo avvertiva freddo sulla pelle calda della sua mano; non poteva essere frutto della sua immaginazione. Lo strinse e lo infilò nella tasca dei jeans, rialzandosi. C’era qualcosa che davvero non quadrava.
«Matteo! Matteo!»
La profonda e fastidiosa voce di suo padre lo distrasse dai suoi pensieri, riportandolo bruscamente alla realtà. Si fermò di scatto, voltandosi verso di lui e incamminandosi per raggiungerlo.
«Matteo, stai bene? Non ti ho visto più. Ero preoccupato.»
«Si. Scusami» rispose con voce atona. «Mi sono fermato per riprendermi un po’».
«L’importante è che tu stia bene».
I suoi occhi esprimevano chiaramente quanto fosse preoccupato, anche se non voleva darlo a vedere. Tuttavia non era una preoccupazione normale, non era da lui, non lo aveva mai fatto prima. Gli rivolse un ultimo sguardo colmo di apprensione:
«Dai, andiamo» gli disse poggiandogli una mano sulla spalla, «Gli altri ci stanno aspettando».
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CAPITOLO 4

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CAPITOLO δ

Arrivarono finalmente nei pressi dell’acropoli e risalirono a piedi. Era molto più piccola di quanto pensasse: poche rovine malridotte in un pugno di metri e tanta fastidiosissima polvere che si alzava da terra. Si diressero direttamente verso l’antro della Sibilla, il luogo più famoso degli scavi, e attesero il loro turno di ingresso. Era cupo e lugubre: un tunnel stretto e angusto dalle scarne pareti in pietra. Al solo guardarlo si provava uno strano senso di soggezione, ma, allo stesso tempo, era palpabile l’alone di mistero che lo avvolgeva. Quando fu il loro momento entrarono, accompagnati dalla solita, fastidiosa e cantilenante lettura:
«Intimamente legato a Cuma è il mito della Sibilla Cumana. Già dal terzo libro dell’Eneide è scritto che Enea, se vorrà finalmente trovare la terra destinata al suo popolo dagli dei, dovrà recarsi ad interrogare l’oracolo di Cuma».
Attraversarono la lunga galleria rettilinea a forma di trapezio. La luce entrava da delle grandi aperture poste sui lati, anch’esse trapezoidali. Proseguendo si fermarono in un’altra galleria, con tre ambienti, stavolta rettangolari che, secondo suo padre, in passato erano state delle cisterne rifornite da un canale. Ma tutto questo non gli interessava. Continuava ad attendere e allo stesso tempo a temere che quella voce tornasse. Camminava con passi pesanti, spingendo con forza le gambe in avanti e più si avvicinava al luogo indicatogli dalla voce, più tremava al pensiero di cosa potesse ancora accadere. Finalmente giunsero in fondo alla galleria, in una camera rettangolare con tre grandi nicchie:
«Bene, siamo nell’oikos endotatos, la stanza oracolare. Questo è il luogo in cui la Sibilla pronunciava i suoi oracoli».
Era arrivato. Matteo chiuse gli occhi, respirando a fondo. Si aspettava da un momento all’altro il ritorno di quella voce nelle sue orecchie, ma non accadde nulla, tutto tacque. Gli unici rumori erano il suono dei passi di coloro che si allontanavano e la voce di suo padre che continuava nella sua lettura. Rimanendo in coda al gruppo e ormai sollevato, si incamminò per seguire gli altri e ripercorrere a ritroso la galleria. La voce non sarebbe tornata; era stato stupido anche solo a pensare che fosse davvero reale. Tirò un sospiro di sollievo, sperando che fosse tutto finito e di poter tornare alla normalità.
«Sei venuto a trovarmi nel luogo in cui il mio corpo si è consumato per il peso dei millenni. Hai seguito le mie parole e di questo tutti ti sono profondamente grati».
La voce si era di nuovo levata flebile nell’aria e di nuovo lo avvolgeva soave. Le certezze che si era precipitosamente costruito crollarono in un istante e di nuovo venne assalito dai dubbi e dall’angoscia. Si sforzò di farsi coraggio, sentiva che scappare sarebbe stato inutile. Dopotutto era entrato di sua volontà nell’antro, sapendo a cosa poteva andare incontro. Sbatté lentamente gli occhi, respirando a fondo. Non riusciva ancora ad accettare tutto ciò; continuava a pensare a tutte le possibilità che gli apparivano razionali e sensate. Non poteva parlare davvero con una voce, non poteva ascoltare davvero la Sibilla Cumana. C’era qualcosa dietro, qualcosa di perfettamente spiegabile:
«Dove sei? Perché ti nascondi?»
«È triste per me rispondere a questa domanda, Viaggiatore, ma lo farò, seppur soffrendo nel ricordare. Molto tempo fa, il dio Apollo, innamorato del mio aspetto, mi chiese di diventare sua sacerdotessa, promettendomi in cambio qualsiasi cosa desiderassi. Io, giovane e stolta, chiesi l’immortalità, la vita eterna, ed egli me la concesse. Tuttavia avevo commesso un errore imperdonabile: dimenticai di chiedere anche l’eterna giovinezza e, per questa mia terribile mancanza, gli anni mi consumarono lentamente. Pian piano il mio corpo divenne sempre più simile a quello di una minuta cicala e gli uomini, mossi a pietà dalla mia vista, mi rinchiusero in una gabbia e mi riposero nel tempio del dio. Apollo, comunque, mi concesse un’ultima possibilità: se avessi accettato di concedermi a lui, mi avrebbe donato la giovinezza, restituendomi il mio antico aspetto. Fui tentata. Soffrivo tremendamente per la mia condizione e nessuno sa quanto desiderassi tornare a sentire un corpo, il mio corpo. Ma rifiutai. Se avessi accettato avrei disonorato il mio nome di Sibilla e non potevo permetterlo, non con te che potevi giungere da un momento all’altro. Condannai me stessa a una sofferenza eterna. Il mio corpo ormai si è consumato del tutto e tu mi incontri ora solo come una flebile voce. Questo mi rattrista, ma il destino è una forza che non possiamo controllare né discutere. Ogni cosa accade nella forma in cui deve accadere e nulla possiamo fare, tranne che accettarlo».
La voce della Sibilla appariva incredibilmente triste e la stessa tristezza pervase il cuore di Matteo, che cominciò ad avvertire un senso di colpa non suo, un’angoscia che in realtà non provava.
«Non essere in pena per me Viaggiatore» disse la Sibilla come se sapesse a cosa stesse pensando il ragazzo. «Questo è il mio compito di sacerdotessa, non mi pento delle mie scelte ed è un grande privilegio per me essere ancora qui in questo mondo, in quest’epoca, perché, se così non fosse, non potrei trovarmi al tuo cospetto».
Matteo si sentiva spaesato, perso. Una parte di lui gli impediva di credere a qualcosa di così innaturale, un’altra parte lo spingeva a credere, a fidarsi e ad aprire la mente a ciò che sentiva, un’altra ancora lo invitava alla cautela, a ragionare, a capire cosa stava davvero accadendo. E poi c’era quella presenza, quella insistente, quella che continuava a dirgli una sola, singola parola: accetta.
«D’accordo» disse all’improvviso, spezzando il flusso dei suoi pensieri. «Ammettiamo che tutto questo sia vero. Ammettiamo che non sia tutto un brutto sogno, che non sono diventato pazzo e che sto veramente parlando con la Sibilla Cumana. Perché?»
«Perché un’ombra è tornata dal passato per riprendersi ciò che era suo», rispose immediata la voce. «Il Cielo cadrà sulla Terra e la schiaccerà con la sua immensa forza. Solo il ritorno dei Signori che un tempo combatterono potrà impedire che ciò si verifichi e solo tu puoi far si che ciò accada perché tu sei il Viaggiatore».
«Perché continui a chiamarmi così?»
«Perché questo è quello che sei. Sarà solo quando accetterai il tuo destino che capirai il significato di questo nome».
Probabilmente non sarebbe potuta essere più vaga e meno chiara. Aveva parlato di ombre, di cielo che cade sulla terra e di antichi signori. Nulla di anche solo lontanamente sensato dal suo punto di vista. Ma aveva capito che sensato e insensato erano due concetti del tutto inutili nella sua situazione. Era in una struttura antichissima a parlare con la voce di una persona che sarebbe dovuta morire millenni prima, se mai fosse esistita davvero. Ragionare in termini razionali in una simile situazione non poteva portare da nessuna parte. Eppure non conosceva altro modo di pensare. Né sapeva come rispondere né, soprattutto, a cosa rispondere.
«Hai ancora molto da imparare, Viaggiatore» continuò la Sibilla. «Il tuo percorso è appena agli inizi. Non sforzarti di capire cose che non puoi ancora comprendere. Dai tempo al tempo».
«Questo non può essere vero», pensò a voce alta, «Non può…»
«Ti ho già detto il mio nome, Viaggiatore» riprese la voce ignorando le parole di Matteo, «Sono sacerdotessa di Apollo e sin dai tempi più antichi sono oracolo di profezie che mai una volta si sono rivelate errate. Eppure ora, per la prima volta nella mia lunga vita, vedo un futuro incerto; non riesco a capire cosa accadrà, ma solo cosa può ancora essere. Il futuro è diviso in due strade opposte. Così come il dì e la notte dividono il giorno, la luce e l’oscurità dividono il domani. Non devi far altro che accettare il tuo destino e, a quel punto, cercarmi nella mia ultima dimora così che possa finalmente indicarti la giusta via. Ma ricorda: più tarda sarà l’ora, più densa sarà l’oscurità del futuro».
D’improvviso la voce abbandonò quell’angusto luogo portando via con sé la sensazione avvolgente che la accompagnava. Nulla era cambiato rispetto a prima: le parole enigmatiche della Sibilla non lo avevano per niente aiutato a comprendere la situazione, anzi, non avevano fatto altro che gettare altra benzina sul fuoco, altre domande nel calderone e anche queste, come tutte le altre, senza risposta. Si avviò a ritroso verso l’uscita affrettandosi lungo la galleria, temendo che si sarebbe trovato nuovamente di fronte suo padre con quello strano sguardo preoccupato e angosciato. Quando finalmente fu fuori, però, non c’era neanche l’ombra del gruppo di ragazzini né tantomeno di suo padre: tutt’intorno non vedeva altro che rovine. Notò subito che la situazione era piuttosto strana. Solo poco prima quel posto era pieno di turisti e risuonava delle voci di decine di persone. In quel momento, invece, davanti ai suoi occhi, appariva completamente vuoto ed era il silenzio a fare da sovrano incontrastato.
Cominciò a camminare e a guardarsi intorno, sperando di vedere qualcuno di familiare o anche solo di scorgere delle persone cui poter chiedere informazioni, ma sembrava davvero essere l’unico individuo presente. Venne colpito da una folata improvvisa; un vento ben diverso dalla leggera brezza che soffiava solo poco prima: era violento, gelido, deciso e accresceva sempre più il suo vigore, spirando con una forza tale da staccare le foglie dagli alberi in fiore. Più il vento si faceva forte, più il cielo diveniva scuro. Poi, come se il sole precipitasse negli abissi del mare, tutto piombò nella più fitta oscurità: non una luce, non un singolo, minimo bagliore riusciva a farsi largo in quel buio così improvviso quanto spaventoso. Il freddo attanagliava l’aria. Improvvisamente, il vento si placò e non ci fu più nessun rumore a spezzare quel lugubre e sinistro silenzio; un lampo squarciò il cielo e una figura apparve davanti ai suoi occhi. Un uomo dalla folta barba bianca che s’intravedeva da sotto il lungo mantello si stava avvicinando. Camminava con passo lento e quasi claudicante, poggiandosi a un bastone nero come il buio che lo circondava. L’unico suono che si levava in quel mare di oscurità era quello dei tuoni, preceduti da lampi accecanti che fendevano il cielo come lame acuminate, illuminando a tratti la tetra figura dell’uomo e quella del ragazzo. Immobile di fronte a quell’inquietante individuo, Matteo si sentiva raggelare il sangue. L’uomo continuava ad avanzare senza proferire parola; lui, gelido e fermo come una statua di marmo, lo vide avvicinarsi, passargli accanto, quasi sfiorarlo e infine allontanarsi all’interno dell’antro dal quale lui era da poco uscito. Rimase lì, fermo, in attesa, cercando di percepire qualche suono, qualche immagine provenire dall’interno, ma l’unico suono che riusciva a sentire era quello del silenzio e le uniche immagini quelle delle foglie che levitavano confusamente a mezz’aria. Decise che quello non era un luogo sicuro e che forse sarebbe stato meglio allontanarsi prima che quel vecchio fosse uscito da quel tunnel. Mise una mano nella tasca sinistra dei jeans in cerca del cellulare. Avrebbe chiamato suo padre, chiesto dove fossero e finalmente sarebbe andato via da quel dannato luogo per non metterci più piede. Ma quando la sua mano fece per stringere il telefono, un altro oggetto richiamò la sua attenzione, un oggetto che in quella situazione aveva completamente dimenticato. Estrasse dalla tasca quella specie di amuleto dorato e circolare con la clessidra incisa e lo guardò. L’oggetto s’illuminò, emettendo una luce accecante. Portò l’altra mano davanti agli occhi e aspettò che il bagliore si affievolisse. Nello stesso istante, sopra di lui, un altro fulmine squarciò il cielo con una violenza tale da sembrare che lo spaccasse in due e scaricò tutta la sua potenza distruttiva al suolo, a solo pochi metri da dove si trovava, lasciando un profondo segno nel terreno. Subito dopo, un tuono assordante riecheggiò nell’aria seguito dalla sua interminabile eco. Matteo diresse il suo sguardo al cielo: non aveva mai visto tanti fulmini, ma soprattutto non li aveva mai visti con un cielo così sereno. Riabbassò gli occhi e vide davanti a lui, nel punto esatto in cui il fulmine aveva toccato il suolo, quell’anziano uomo claudicante. Lo fissava, nascosto sotto il mantello. Lentamente, con la mano libera, fece per sfilarsi il cappuccio. Matteo lo scrutava attento, con un nodo alla gola, senza capire come avesse fatto a raggiungerlo così velocemente e perché gli incutesse tanto timore. D’improvviso, una stretta decisa lo afferrò per il braccio tirandolo a sé e tutto intorno a lui divenne luce. In un attimo ogni suono cessò, ogni immagine sparì davanti ai suoi occhi e ogni luogo divenne solo un ricordo. La luce lo avvolse e, nello stesso istante, scomparve.
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CAPITOLO 5

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CAPITOLO γ

Era lì. Ne era sicuro. Non poteva sbagliarsi, lui non sbagliava. Aveva avvertito la sua presenza e aveva visto chiaramente la sua luce. Questo voleva dire che la chiave era davvero lì, in quel posto dimenticato dagli dei. Dal momento stesso in cui era riuscito a rimettere piede sulla Terra, aveva avuto la conferma che le voci, vecchie di secoli e millenni, non erano altro che la verità: la profezia era esatta; le chiavi esistevano davvero e lui doveva trovarle, prima che lo facesse qualcun altro. Ade era stato scaltro a nasconderle; era riuscito a celarle persino ai suoi occhi.
Dall’immensità del cielo aveva assistito ad ogni cosa, aveva compreso ogni avvenimento e osservato ogni sviluppo. Nulla era sfuggito alla sua vista, né gli uomini né gli dei: gli uni troppo superbi nella loro impotenza, gli altri troppo compiaciuti del loro effimero potere. Nulla gli era sfuggito, nulla tranne Ade. Celato nelle profondità della Terra, era stato l’unico a dare ascolto alla profezia e aveva fabbricato e nascosto le chiavi che li avrebbero risvegliati. Erano disseminate in tutto il globo; ora più che mai ne aveva bisogno: non poteva permettere che gli umani le trovassero e le usassero per liberarli. Aveva già aspettato troppo e non poteva permettere che accadesse di nuovo come in passato, quando suo figlio lo aveva costretto a fuggire. Da quel momento non aveva fatto altro che attendere, immobile e impotente, che i tempi fossero diventati maturi per il suo ritorno.
Dall’alto della sua dimora, aveva osservato lo svolgersi della vita sul suo amato pianeta, aveva visto meglio di chiunque altro l’evolversi dell’umanità e le devastazioni che aveva portato. Le guerre, le carestie, le vite nate e subito spezzate. Gli essere umani non meritavano di abitare quei luoghi, non meritavano di calpestare il suolo del suo eterno amore, di sua madre, della sua sposa. Eppure c’era qualcuno che ancora li difendeva, che ancora li proteggeva e talvolta li guidava quando la via si faceva più impervia, quando il buio cominciava a sopraffare la luce; qualcuno che gli dava una speranza nei momenti di sconforto e li faceva rialzare ogni volta che cadevano. Tutto questo non sarebbe dovuto esistere. Gli uomini erano sempre stati esseri imperfetti, ma avevano ormai raggiunto un livello di corruzione dal quale era impossibile tornare indietro. Ogni cosa, così com’era, doveva sparire; tutto doveva tornare alle origini, quando il Chaos regnava sovrano e, al di fuori di esso, non vi era altro che lui, il cielo stellato, disteso sull’oggetto del suo eterno amore. Se solo non fosse stato costretto all'esilio, se solo non fosse stato spodestato dall'egoismo e dalla brama di potere dei suoi figli, lo sfacelo che aveva osservato non si sarebbe mai verificato. Il genere umano, in fondo, non aveva colpe, era stato abbandonato a se stesso, senza una guida, senza qualcuno che lo indirizzasse con la sua costante presenza. Gli dei avevano dimenticato qual era il loro compito, il perché della loro esistenza e ora, a causa loro, sarebbero stati proprio gli esseri umani a pagare lo scotto peggiore. E questo lo rattristava. Ma era necessario.
Per prima cosa, però, avrebbe dovuto riacquistare il suo antico potere e, con esso, il suo ruolo. Aveva atteso a lungo, ma era finalmente giunto il tempo di rivendicare ciò che era suo di diritto.
Era lì, fermo, a scrutare il punto in cui aveva visto il bagliore di quel prezioso oggetto; a pensare a come potesse essergli sfuggito. Era lì, fermo, e non capiva cosa fosse accaduto. Solo un attimo prima sentiva di averlo in pugno, ma poi, in un istante, la sua presenza era svanita nel nulla, come dissolta. Solo gli dei erano in grado di causare un simile prodigio, ma non gli era concesso né di vedere, né tantomeno di toccare le chiavi; questa era una prerogativa riservata solo a quegli umani. E allora chi? Chi era riuscito a recuperare la chiave e a svanire nel nulla in un solo istante? Chi era riuscito a sfuggire alla cura?
Ad ogni modo, era tempo di sbrigarsi e di continuare l’opera appena iniziata: presto o tardi avrebbe recuperato tutte le chiavi e le avrebbe distrutte. Avrebbe curato l’umanità corrotta e con essa il creato intero, e dal nulla avrebbe generato un nuovo mondo di cui sarebbe stato signore e guida; dove sarebbe stato presente e avrebbe regnato rettamente e in cui nessuno avrebbe più osato ribellarsi al suo volere, nessuno avrebbe più potuto farlo. Un mondo migliore.
E così sarebbe stato. Per l’eternità.
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CAPITOLO 6

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CAPITOLO ς

Si trovava davanti a un immenso fiume, in una landa buia e desolata. La terra era fredda e rocciosa sotto i suoi piedi e l’aria sordida e pesante sulla sua testa. Non vi erano suoni, tutto taceva: mancava persino il rumore della corrente. Non gli era ben chiaro cosa fosse accaduto, anche se oramai aveva perso ogni speranza di capire cosa stesse succedendo. Aveva davanti agli occhi un fiume dalle acque stagnanti e tutt’intorno, in quel luogo così oscuro e sinistro, non vi era traccia né dei fulmini che fino a poco prima squarciavano il cielo, né del vecchio mendicante, né tantomeno di qualcosa che gli indicasse anche solo vagamente dove fosse finito. Si convinse a fare qualche passo in avanti, verso la banchina, sperando di poter scorgere qualcosa che potesse aiutarlo a capire dove si trovasse, ma tutto ciò che riusciva a vedere era la sabbia rossa del terreno e l’acqua verdastra del fiume. Poi, d’improvviso, uno strano rumore ritmico cominciò a giungere alle sue orecchie, facendosi sempre più insistente. Si voltò nella direzione del suono e iniziò ad avvicinarsi, avvertendolo sempre più chiaro e distinto: erano passi. Di fronte a lui vide una moltitudine di persone dall’aspetto malconcio che camminavano in fila perfetta. Alcune indossavano una semplice veste bianca, altre erano completamente nude. Si fermò, allo stesso tempo incuriosito e sconvolto alla vista di una simile scena. Avanzavano lentamente e si avvicinavano sempre di più, proseguendo con la testa bassa e lo sguardo fisso sui loro piedi, il viso inespressivo come privo di ogni sentimento o sensazione. Camminavano come in processione, senza proferire parola; si muovevano in perfetta fila di tre e persino i loro passi erano in totale sincronia. Man mano che si avvicinavano riusciva a cogliere sempre più dettagli del loro aspetto: avevano la pelle avvizzita su tutto il corpo e questo li faceva sembrare degli anziani, tuttavia, tra tutte quelle persone, ce n’erano alcune che, nonostante la pelle rugosa, erano visibilmente più giovani delle altre. Era come se il tempo le stesse lentamente consumando. Osservò attentamente la moltitudine di uomini e donne che aveva davanti: la fila era interminabile e per quanto provasse a vederne la fine non riusciva a scorgerla, nonostante il terreno fosse completamente piano e deserto. Ad un tratto intravide qualcuno che gli sembrò familiare. Non molto distante da lui c'era un uomo grasso, con un accenno di calvizie, che camminava seguendo quella marcia lugubre e inquietante. Si avvicinò a lui, studiando con attenzione il suo viso, cercando di scorgere qualche particolare che confermasse o smentisse la sua idea. Lentamente, intanto, la fila arrivò sulla sponda del fiume: alcuni si staccarono e iniziarono a camminare con lo stesso ritmo lungo la riva, altri rimasero in coda, fissando l’acqua con oc-chi vitrei, fermi, come in attesa di qualcosa, o di qualcuno. Ma lui era concentrato sull'uomo; più lo guardava, più era convinto di conoscerlo, più la sua angoscia saliva:
«Papà» disse con un filo di voce quando ormai fu solo a pochi passi, «Sei tu?»
L’uomo davanti a lui non batté ciglio né mosse un muscolo, né tantomeno sembrava averlo sentito.
«Papà?» ripeté con voce più alta.
«Matteo, non uscire dalla fila. Torna al tuo posto e non peggiorare la tua situazione».
Aveva parlato senza voltarsi, continuando a fissare i suoi piedi. Matteo era incredulo: perché suo padre era in quel posto, in quelle condizioni e completamente nudo?
«Papà ma che succede? Dove siamo? Stai bene?»
Questa volta l’uomo si voltò e Matteo notò che pareva molto più vecchio di quanto non fosse solo poco tempo prima: la pelle ricadeva sul suo corpo, i muscoli erano cadenti e vistose rughe ne increspavano il viso. Il padre lo fissò con gli occhi affossati, con uno sguardo pervaso da un sincero stupore misto a una strana consapevolezza. Un leggero sorriso increspava il suo viso ricalcando le profonde rughe:
«Matteo» disse con voce colma di gioia «Tu sei vivo! Ci ho sperato fino all'ultimo! Perché sei qui?»
«Perché il suo destino è diverso da quello che aspetta te, anima errante!»
Come un bambino sgridato da un genitore dopo una cattiva azione, il padre voltò subito il capo e riprese immediatamente il suo posto nella fila, tornando a fissare il terreno con sguardo vuoto. Matteo si voltò verso il fiume e vide avvicinarsi colui che aveva appena parlato. Era un uomo molto anziano, camminava zoppicando vistosamente, sostenendosi su uno strano bastone in osso. La folta e lunga barba bianca e gli occhi fiammeggianti, però, gli conferivano, nonostante l’età, un aspetto sicuro e autorevole. Sulle vesti logore color porpora, che quasi stonavano tra tutti quei corpi nudi o vestiti di bianco, si adagiava un lungo e sporco mantello nero che gli partiva dalle spalle raggiungendogli le caviglie, ricadendo fluido sul suo vecchio corpo.
«Tu! Ragazzo! Seguimi»
Detto questo si voltò, avviandosi nuovamente verso la riva del fiume. Matteo rimase fermo accanto a suo padre, senza la minima intenzione di ascoltare quello strano tipo. Poi l’uomo, di nuovo, si rivolse a lui:
«Ti vuoi muovere?  Non abbiamo tempo da perdere qui!»
«Dove dovrei seguirti?» chiese diffidente.
«Al fiume»
«Per andare dove?»
«Divino Zeus! Dall’altra parte no? Che razza di domande!»
«Cosa c’è dall’altra parte?»
«Per tutti gli Dei! Sei insopportabile ragazzo! Sbrigati a seguirmi, gli ordini sono ordini!»
«Non mi muovo da qui senza di lui». Non si fidava di quello strano vecchio dall'aspetto assurdo e di certo non avrebbe abbandonato suo padre in quel posto e in quelle condizioni.
«Quell’anima non può seguirti. Ora, per Zeus, muoviti che, come vedi, ho da lavorare!» tagliò corto il vecchio.
«Anima?!»
Gli occhi quasi gli schizzarono fuori dalle orbite. Il torpore che lo aveva sopraffatto fino a quel momento svanì di colpo, soppiantato dallo stupore. Suo padre era un’anima? Non era possibile. Era quindi morto? E con lui lo erano tutte le persone di quella fila? Tentò di dire qualcosa, di chiedere qualcosa a quel vecchio strambo, ma le parole, ammesso che ne avesse ancora, erano bloccate in gola. Era morto; un’infinità di volte era arrivato a desiderare che quell’uomo sparisse dalla faccia della Terra e pensava si sarebbe sentito meglio quando questo fosse accaduto, pensava si sarebbe sentito finalmente libero senza quella presenza così fastidiosa. Tutto ciò che provava in quel momento, però, non era altro che un immenso vuoto. Suo padre era morto. Questo voleva dire che non avrebbe mai potuto chiarire, che non poteva più esserci la speranza di un rapporto normale tra loro, di un legame naturale tra padre e figlio. Con la coda dell’occhio lo osservò ancora una volta: era sempre lì, in fila con gli occhi puntati verso il basso e la pelle che si raggrinziva sempre di più, portandolo pian piano a non essere più riconoscibile. Poi li vide: dietro suo padre c’erano tutti i ragazzini della gita, tutti in coda, aspettando, tutti quasi irriconoscibili e anche loro completamente nudi.
«No!», esclamò, «Non può essere!» Indietreggiò, sconcertato: «No!»
«Siamo nell’Averno ragazzo, negli Inferi. È qui che le persone giungono dopo la morte, o meglio, è qui che arrivano le loro anime».
L’uomo aveva avvertito il dolore che in quel momento provava Matteo e la sua voce si era fatta più gentile, più affabile; improvvisamente, più che un vecchio strambo, sembrò quasi un nonno amorevole che tentava di consolare il nipote con i suoi saggi consigli:
«Tutti, prima o poi, devono passare da qui. Sapessi quante anime ho visto nella mia vita: uomini e donne, vecchi e bambini; ho visto di tutto, e molte delle loro storie erano parecchio tristi. Ma questo è il posto giusto per ritrovare la pace. Non hai di che preoccuparti, le loro rughe non sono profonde».
«Preoccuparmi? Preoccuparmi? Mio padre è morto! Io sono qui senza sapere cosa diavolo sia successo e lì» indicò con la mano il punto esatto della fila, «Lì ci sono dei bambini, capisci? Dei bambini!» Si fermò per riprendere fiato: «Sono solo dei bambini!» urlò rivolgendosi al nulla.
Le lacrime iniziarono a uscire sempre più copiose e lui si sentiva sempre più spaventato e disperato.
«Che volete da me? Che volete» singhiozzò «Che volete…»
Iniziò a farfugliare, buttandosi sulle ginocchia. Il terreno era sporco e i sassi si conficcavano nelle gambe procurandogli dolore. Un dolore che tuttavia non sentiva, nessun dolore fisico poteva anche solo sfiorarlo in quel momento. Il vecchio si avvicinò a lui e lo guardò con i suoi occhi rosso fuoco. Poi, prese il bastone e lo colpì leggermente sulla testa. Matteo alzò gli occhi, guardandolo tra le lacrime con un misto di rancore e sconforto:
«Vuoi forse restare qui a piangere su cose su cui non hai alcun potere? Di fianco a te hai milioni di morti. Ogni giorno arrivano qui milioni di anime da migliaia di anni. Hai una vaga idea di quante ne abbia viste e di quante ne abbia scortate? Tuo padre non è né il primo né l’ultimo che giunge qui e quei ragazzi non sono certo gli unici a essere morti giovani! È la realtà di questi tempi. Piuttosto, anziché stare qui a piagnucolare, perché non ti chiedi come sia possibile che siano morti tutti? Perché non ti chiedi tu come hai fatto a sopravvivere? E perché non ti chiedi che diavolo ci fai tu che sei vivo in questo posto?»
«Chi sei?» gli chiese d'improvviso Matteo.
«Io sono Caronte, il traghettatore di anime. Trasporto i morti da una sponda all’altra dell’Acheronte e oggi mi è stato affidato il compito di trasportare te. E abbiamo già perso tempo a sufficienza».
Perso tempo; sosteneva che avevano perso tempo. Ma almeno loro ne avevano, di tempo; quelle anime, pur avendo davanti a loro l’eternità, non ne avevano affatto. Erano morti, che senso poteva mai avere, per loro, il tempo? La rabbia cresceva dentro di lui e iniziava a provare rancore anche verso quel vecchio che gli stava davanti, così indifferente di fronte alla morte, così abituato ad essa da non poter essere considerato più umano, se mai lo fosse stato.
«Calmati ora» l’uomo aveva riconosciuto un barlume di odio nei suoi occhi, «Vorresti prendertela con me? E a che servirebbe? Ti farebbe stare meglio? Li farebbe tornare? No, niente di tutto questo. Semplicemente ti sfogheresti, ma finiresti per farti male, fidati. Fa qualcosa di buono piuttosto».
«Chi è stato?» chiese lui con durezza.
«A fare cosa, ragazzo?»
«A ucciderli. Chi è stato?»
«Non sta a me dirtelo. Lo saprai se mi seguirai».
«Dimmi chi è stato o non vengo da nessuna parte!» disse deciso.
«Non lo so!» ribadì il vecchio, «Ma ho un vago sospetto»
«Dimmelo, te ne prego» insisté.
«Perché vuoi saperlo ad ogni costo? Credi ti aiuterà a stare meglio? Il dolore porta alla paura, ragazzo; la paura porta al desiderio di superarla, il desiderio porta alla brama di potere, la brama porta all’odio e l’odio… al male. È una catena indissolubile: nel momento stesso in cui il tuo cuore lascerà spazio alla paura, tu perderai. Liberati dal dolore e dalla paura che ne consegue e nessuno potrà mai scalfirti».
«Mio padre è morto» disse in modo freddo. «Come puoi dire delle cose tanto assurde in un momento come questo!».
«Sei libero di pensarla come ti pare. Io so solo che devo portarti dall'altra parte» tagliò corto il vecchio.
«Io con te non vado da nessuna parte».
«Diffidente» disse compiaciuto, «È un bene. Ma non è questo il momento. Te lo dico per l'ultima volta, seguimi. Fallo con le buone, prima che mi decida ad usare le cattive».
Matteo guardò di nuovo suo padre. Continuava a camminare lento, fissando il terreno e non dicendo una parola, incurante di ciò che stava accadendo. Ormai aveva superato sia lui che il vecchio. Non riusciva a credere che quell'uomo rugoso che si trascinava in silenzio fosse davvero colui per il quale aveva provato tanto disprezzo solo poco tempo prima. Più lo guardava più non riusciva a provare altro che pena per lui e dispiacere per ciò che non gli era più possibile fare. Improvvisamente suo padre si voltò, rivolgendogli uno strano sguardo. Sorrise e gli fece un cenno affermativo con la testa. Disse qualcosa, ma parlò a voce talmente bassa che non riuscì a capire le sue parole. Subito dopo tornò a rivolgere lo sguardo al suolo proseguendo la sua lugubre marcia verso il fiume.
«Non ho tempo da perdere, ragazzo!» urlò il vecchio stanco di aspettare. «Ti ho detto che ho del lavoro da sbrigare, perciò seguimi e finiamo questa storia!»
«D'accordo» rispose rivolgendogli di nuovo il suo sguardo.
«Perfetto!» gli rispose Caronte sorridendo «Ora cominci a ragionare».
Si incamminò con passo svelto verso la riva, sempre sorreggendosi al suo strano bastone. Matteo lo seguiva a ruota, guardando a tratti il fiume, a tratti la fila di anime e pensando al gesto di suo padre. Attraccata alla banchina c'era una barca, all’interno della quale, poste ai due lati, vi erano delle lunghe panche. Non proferì parola e vi salì, sedendo a un estremo di uno dei due banchi. Il vecchio cominciò a far salire alcune anime, scacciando con un remo le altre verso la riva e impedendogli di salire a bordo dell’imbarcazione. Pian piano i banchi si riempirono e la barca, appesantita, cominciò a imbarcare l’acqua della palude per le tante fessure. Il ragazzo notò che il vecchio lasciava salire solo le anime con la veste, lasciando a riva quelle nude. Continuò a fissare le anime pensieroso, mentre Caronte fissava lui, quasi divertito:
«Farai il viaggio con qualche anima; spero non ti dispiaccia».
Iniziò a remare, poi ci ripensò:
«Anzi, spero di si».
Matteo non fece una piega e si voltò verso la sponda del fiume che avevano appena lasciato. Vide delle anime che erano state lasciate a riva e che ancora attendevano; sicuramente Caronte sarebbe tornato a prenderle tutte. Poi si accorse che alcune di esse, quelle nude, cominciavano ad allontanarsi dalla riva man mano che la raggiungevano, disperdendosi lungo il corso d’acqua. Tra queste scorse suo padre e i ragazzi:
«Dove stanno andando?» chiese scattando in piedi e facendo tremare la barca. «Perché non aspettano insieme agli altri?»
«Si spostano perché non possono attraversare il fiume. Non ora almeno».
«Cosa? Perché? Dove andranno?»
«Siediti, ragazzo, questa bagnarola non è fatta per saltarci su! Non vanno da nessuna parte. Continueranno a vagare lungo la riva, nella palude. Non avranno una sistemazione in questo mondo. Non nelle condizioni attuali, almeno».
«Non dipende da loro» disse anticipando la domanda di Matteo. «Le anime di coloro che alla morte non hanno avuto degna sepoltura, arrivano qui prive della veste e non possono raggiungere l’altra sponda fino a che i loro corpi non troveranno la giusta pace nella tomba o, in mancanza di questo, finché non saranno trascorsi cento anni. Solo allora saranno ammessi nel regno di Ade».
Non poteva essere vero. Non solo erano morti, erano anche condannati a vagare senza meta finché qualcuno non avesse dato loro una degna sepoltura. Per quanto suo padre non fosse stato un sant’uomo in vita e non avesse mai avuto un buon rapporto con lui, saperlo morto lo aveva profondamente scosso. Saperlo anche a vagare per cento anni in una landa desolata come quella faceva crescere dentro di lui una tristezza infinita. E una rabbia indescrivibile. La cosa più triste, però, era pensare a quei ragazzini, troppo piccoli per avere sulle spalle colpe abbastanza gravi da tenerli, anche solo per poco, in quel luogo così oscuro.
«Dove si trovano i corpi di quei ragazzi e di mio padre?»
«Sono spiacente, ma non so darti una risposta. Non conosco il nome di coloro che trasporto né, tantomeno, conosco i loro affari terreni. So solo chi deve o non deve passare. E anche se sapessi qualcosa, non te lo direi. E’ tempo perso. Hai altro da fare».
«Posso pagarti».
Caronte rise di gusto: «Pagarmi? Stupido ragazzo! Non vedi dove siamo? Cosa vuoi che me ne faccia della moneta di voi stupidi umani?» Continuava a ridere, quasi senza riuscire a trattenersi. «Non c’è rispetto in questa gioventù! Pagarmi! Fa silenzio e lasciami fare il mio lavoro!»
Matteo capì che aveva commesso un errore. Non sapeva come gli era potuta venire in mente una cosa così stupida, ma ormai non poteva farci nulla, doveva subire le risate di scherno del vecchio, accompagnate dai suoi borbottii. Si ritirò nei suoi pensieri, osservando le anime accanto e di fronte a lui, facendosi mille domande senza trovare nessuna risposta. Ormai era ovvio che tutto quello non poteva essere solo un incubo, anche se un po’ ci sperava ancora. Volente o nolente, quello che i suoi occhi stavano vedendo e che lui stava vivendo in quel giorno stava accadendo davvero. Per quanto assurdo gli potesse sembrare, quella era la realtà. Mentre pensieri di questo genere andavano via via aumentando nella sua mente, la malandata imbarcazione giunse finalmente sull’altra sponda del fiume.
«Siamo arrivati. Ora andrai avanti da solo. Segui le anime, non potrai sbagliare».
«Dove devo seguirle?»
«Vedo che la fiducia non è il tuo forte» si lamentò esasperato il traghettatore, «Seguile e non infastidirmi oltre».
Consapevole che rispondere era inutile, Matteo scese dalla barca e, dopo di lui, scesero le anime che subito, sempre in fila, s’incamminarono sul terreno fangoso. Caronte, intanto, non appena furono scesi tutti, ripartì verso l'altra sponda senza aggiungere una sola parola. Lì, ad attenderlo, avrebbe trovato altre innumerevoli anime, pronte a intraprendere il loro ultimo viaggio.
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Spero siano di vostro gradimento. Ne approfitto per ringraziare arles, senza di lui non avrei mai potuto condividere con voi questo mio lavoro. Ricambio estremamente volentieri il tuo  :+1: e ti dico GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE.
« Ultima modifica: 03 Marzo, 2012, 00:04:11 am da Kid Chino »

Offline genesis

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Re: KAIROS
« Risposta #87 il: 02 Marzo, 2012, 22:58:58 pm »
perfetto kid :yea:
però posso farti un appunto? *plego
in alcuni punti le parole sono spezzate da un simbolo... non pregiudica niente, è solo che durante la lettura, diciamo che "inciampavo" su quelle parole
"tu colui che catturò una stella cadente
oh uomo senz'anima
il tuo cuore è una mia proprietà"

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La via ti si può aprire solo se credi in te stesso. Saranno le esperienze fatte a dirti qual era la scelta giusta.
Trattenni il respiro vedendo quei capelli neri danzare, mentre la neve scendeva illuminata dalla Luna. Era come un ciliegio che sboccia fuori stagione

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Re: KAIROS
« Risposta #88 il: 02 Marzo, 2012, 23:22:23 pm »
Uff... è la sillabazione di word. Ho fatto la sillabazione su word quando ho finito e ora dovunque copio il testo mi riposta quel simbolo dove sono le parole che nel documento sono sillabate :(

Non è volontario :( Qualcuno sa come posso rimuovere questo problema a parte manualmente?

Scusa gen  :nuu:

Offline genesis

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Re: KAIROS
« Risposta #89 il: 02 Marzo, 2012, 23:28:55 pm »
ma stai tranquillo *plego te l'ho voluto dire perchè non sapevo se era un problema del programma che usavi o no *plego

mene sono accorta più che altro perchè sono al pc, se fosse stata carta stampata lo avrei visto solo dopo parecchio :XD: mentre al pc l'occhi mi si stanca prima

comunque un :+1: per te :yea:
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Re: KAIROS
« Risposta #89 il: 02 Marzo, 2012, 23:28:55 pm »