Saint Seiya GS - Il Forum della Terza Casa

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Topics - siegfried1

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FanFic / Showbiz vol. 6 - grande schermo
« il: 22 Luglio, 2019, 22:26:16 pm »
30 anni.
Ci erano voluti trent'anni ma finalmente saint seiya era arrivato alla consacrazione finale.
Un film high budget, distribuito nelle sale di tutto il mondo.
Saint seiya legend of sanctuary.
Suona magnifico, vero?
Appena i primi rumors erano usciti - e subito confermati - le azioni di Meyer erano volate alle stelle.
Barbara Broccoli e Brad Pitt lo avevano supplicato di entrare in co produzione.
E lui, magnanimo bastardo, li aveva accontentati.
Imponendo l'intero cast originale.
Gold compresi, Meyer era stato di parola.
E quando i copioni erano stati finalmente consegnati, Seiya aveva invitato tutti nella sua villa per una prima lettura.
Accompagnata, naturalmente, da cibo, vino e allegria.
Svetlana era raggiante, una splendida padrona di casa.
Quanto ai suoi figli, Mark era a Parigi - questioni di studio - e Jennifer era dai nonni, a Savannah.
E, clamorosa botta di culo, Meyer era a londra, quindi sarebbero stati solo i membri del cast e relative consorti/fidanzate/amichette.
Saga, puntualissimo, era arrivato per primo.
Allegro e chiassoso, pancia monumentale, due cinguettanti ragazzine al braccio.
A quanto pareva Greta, la sua ex moglie, aveva mollato il colpo e lui, finalmente, era tornato a vivere sereno.
E dopo di lui, tutti gli altri.
Deathmask in elicottero, da solo. Come Aldebaran. Stava meglio, ora, aveva rimesso su chili e colorito.
Mu era insieme alla sua seconda moglie.
Aiolia in ferrari, ancora deluso per il suo ultimo film in corea, ma sempre in forma.
Shaka e Camus, insieme, con le fidanzate.
Shura da solo, Rupert aveva avuto un impegno improvviso.
Dohko, vecchia gloria dei tempi di Orson Welles, in limousine con Milo.
E poi erano arrivati gli altri protagonisti.
Ikki con la sua nuova compagna, Olga Kurylenko, Shun e Shiryu insieme, senza nessuna accompagnatrice.
Hyoga, con la promessa solenne di non affaticarsi, era insieme alla sua infermiera personale.
Insisteva a sostenere che i rapporti fossero solo personali ma lo sapevano tutti che non erano solo quelli i motivi della loro convivenza.
Ultimi, Aphrodite con il suo solito codazzo di soubrette, attricette e fluffer, Saori col suo nuovo toyboy, Alejandro, un modello guatemalteco di venticinque anni e altrettanti centim...ehm...talenti.
Svetlana aveva fatto apparecchiare accanto alla piscina e la serata era stata magnifica.
Aveva persino mostrato - timida com'era, era la prima volta - i suoi trofei di tennis, compreso l'oro olimpico vinto nell'ottantaquattro.
E tutti ridevano, scherzavano, mangiavano e bevevano di gusto, tutti ringiovaniti, tornati indietro di trent'anni al primo ciak.
Persino Saori sembrava a suo agio, contenta.
Poi Seiya aveva fatto distribuire i copioni - nessuno aveva voluto leggere una sola parola prima di quella sera - e tutto era precipitato.
- oh, che cazzo sono ste armature? Giriamo il remake del reboot di tron?
- ma le catene di cosmo? No, dai.
- ehi, alla mia età non lo faccio un balletto, ma che cazzo.
- sentite un po', ma vi lamentate pure? Io crepo come un idiota cadendo dalla finestra, dalla finestra porcamiseria.
- dai, ragazzi, non esagerate, lo sapete come va, no, alla prima lettura?
- ah sì, perché non dai uno sguardo alla scena del centauro.
- dai, ma che è stammerda? Pure la statua, pure.
Per mezz'ora filata grandinarono insulti, bestemmie e ogni genere di oscenità.
Poi, incazzati come bisce idrofobe, se n'erano andati tutti.
Seiya li guardò sconsolato.
Era in vista un flop.

2
FanFic / Showbiz vol. 5 - oltre la sfera del tuono
« il: 22 Luglio, 2019, 03:19:07 am »
Il signor Meyer, ricchissimo e plenipotenziario produttore cinematografico, se ne stava sdraiato su una montagna di cuscini.
All'ombra, davanti alla piscina olimpionica della sua villa di Malibu, con il suo.immancabile sigaro in una mano e un cocktail Martini nell'altra, sembrava uno strano incrocio fra un sultano e un trafficante colombiano.
Eh sì, nonostante tutto il potere e la ricchezza guadagnati in decenni - né suo padre né suo nonno, va detto, erano migliori di lui - di "sporco cinema", i suoi gusti erano rimasti chiassosi e volgari.
Ma che gli.importava, in fondo?
Sogghignando soddisfatto, ammirò le chiappe sode della sua nuova fidanzata -Yuna - appena maggiorenne mentre usciva dall'acqua per venirlo a coccolare un po'.
Non vedeva l'ora che gli facesse uno dei suoi leggendari p...ma che diavolo...?
Jerome, uno dei suoi camerieri in uniforme, gli fece un cenno discreto.
Che palle, ma proprio adesso?
Indossando il suo miglior sorriso finto, si buttò sulle spalle l'accappatoio, baciò una tetta della sua donna, si mise le ciabatte e rientrò in casa.
- ah, Seiya, Seiya carissimo, che piacere vederti.
Seiya gli diede la.mano, Meyer la strinse con simulato calore.
- è un piacere anche per me, signor Meyer.
- oh, ti prego, è dagli anni ottanta che te lo dico. Seth, chiamami Seth.
- va bene, certo, signor Me...Seth.
- molto bene, molto bene, ragazzo mio. Allora, andiamo di là, nel mio studio. Va bene?
- come vuole, va benissimo.
Meyer gli fece strada, mostrandogli per la ventesima volta, minimo, tutta la serie di preziosi - e pacchiani - quadri, mobili e soprammobili del corridoio, sottolineando come al solito il loro costo.
Entrarono nello.studio.
Meyer chiuse la porta.
- allora, cosa bevi?
- io...veramente...
- faccio io, caro, faccio io. Due bourbon, eh? Roba da uomini, che dici?
Seiya, un poco imbarazzato, si sedette annuendo.
- ecco, a questo proposito signor Meyer...
- Seth
- mi scusi, Seth. Dicevo, a questo proposito, Seth, avrei delle perplessità.
Meyer gli allungò un tumbler di cristallo pieno a.metà di ottimo whisky del Kentucky, Seiya lo alzò a mo di brindisi.
- perplessità? Su che cosa? Non ti piace questa nuova serie?
- no, no, non è quello. Anzi, si figuri, sono quattro stagioni, voglio dire...
- eh, Saint Seiya va a gonfie vele. Oggi, quasi, più di ieri. Ed è merito tuo, ragazzo mio.
- beh, non so cosa dire...grazie sig...Seth. Ecco, ora quasi mi vergogno. Voglio dire, ero venuto per parlarle e...
- ma tu devi parlarmi, Seiya. Devi, che diamine. Allora, cosa non ti convince?
- posso essere franco, Seth?
- diamine, ragazzo, certo. Devi.
- bene. Allora...E va bene, ha visto le armature nuove?
- sì, ho visto i definitivi qualche mese fa. Perché?
- ma a lei piacciono?
- cos'hanno che non va?
- signor...Seth, andiamo, le sembrano armature, quelle? Sono imbarazzanti, andiamo bene per stare su un carro del pride.
- ma che dici? E poi che problema ci sarebbe?
- nessuno, ci mancherebbe, in linea generale. Solo che pare un po' assurdo andare in battaglia vestiti come delle drag.
- le mode cambiano, Seiya, i gusti cambiano. Gli sceneggiatori, e io sono d'accordo con loro, pensano che il prodotto debba diventare...come dire...più inclusivo.
Seiya alzò un sopracciglio.
- inclusivo?
- ma certo. Siamo in piena epoca del politicamente corretto, non te ne eri accorto?
- non afferro.
Meyer prese un altro sigaro da una scatola, se lo accese e gliene offrì uno.
Sapeva che lui aveva fatto una fatica tremenda a smettere, brutto stronzo.
- ho smesso, la ringrazio.
- oh, già. È vero. Me lo dimentico sempre.
- non fa nulla, non fa nulla.
Fanculo.
- dicevamo...lo show è sempre stato all'avanguardia. Insomma, personaggi...ambigui, ecco, non sono mai mancati. Siamo.sempre stati gay friendly...
Certo, come no, Meyer. Talmente friendly che Shura poté fare coming out solamente nel 2005, senza rischiare di essere sostituito.
Davvero, davvero friendly.
- ...ma non è abbastanza. Non oggi. Un cambio di design, qualcosa che sappia meno, come direbbero quelli del marketing, di mascolinità tossica.
- ma sono armature, Seth, che c'entra il resto?
- i primi test si sono dimostrati più che positivi. Credimi, ora siamo davvero in linea con le richieste del mercato.
- certo, capisco, signor Meyer.
E infatti i personaggi sono tutti etero...
E come mai era stato preso quel tamarro di Amor invece che Luke Evans, che era entusiasta del progetto?
- c'è altro?
- beh, ci sarebbe la questione dei pandora box ma...
- stesso discorso.
- lo.immaginavo. Ecco, notavo che le maschere...
- anche qui, discorso simile. La storia delle donne mascherate andava bene negli anni ottanta, ma oggi no. Si sentono oggettificate e non va bene affatto.
E infatti, Meyer, sono sempre scollate e con le cosce di fuori perché tu hai sempre avuto un profondo rispetto per le donne, vero?
- d'altra parte, con le minoranze, siamo sempre stati un punto di riferimento. Mica per nulla abbiamo deciso di usare personaggi da ogni parte del mondo, dico bene?
Certo Meyer, Shaka, infatti, è il tipico abitante di Calcutta.
E non vedo un solo domestico che non abbia origini africane.
- oh, naturalmente, naturalmente, Seth.
- vedi? Vedi che siamo d'accordo, io e te?
- capisco, sì. Ehm...ecco...
- sì? Vai avanti. Rilassati e dimmi tutto.
- ok...ecco, vede, vengo qui da, ehm, portavoce e...
- non vorrai parlare di soldi, spero?
- no, no, si figuri. Dicevo che, insomma, i ragazzi mi hanno chiesto di...sa, lavoriamo insieme da anni, insomma, anche loro...
- vai avanti.
- ecco, Hyoga non ce la fa più, lo sa, è veramente mal messo. Ci sono una serie di scene che non può proprio fare. E Ikki...senta, lo sappiamo entrambi che non si è mai ripreso da quella storia della Jolie.
Meyer sbuffò una nube di fumo grigio e puzzolentissimo, poi posò il sigaro in un portacenere smaltato e intrecciò le dita delle mani.
Come ogni volta in cui voleva fare la parte del liberale ma si stava stancando di dare retta alla manovalanza.
- senti, ragazzo mio, che vuoi che possa farci? I copioni ci sono da un pezzo, come i contratti. E mica possiamo farli saltare così, no? Anche io devo rendere conto, cosa credi?
- certo, certo, lo capisco ma...
- non hai idea di cosa comporterebbero anche piccole modifiche. Ritardi, costi aggiuntivi, gli sponsor che romperebbero le palle, i distributori che pretenderebbero il mio sangue. Lo sai come va.
- io, certo, certo...
- insomma, ragazzo, non se ne uscirebbe più. Rassicurali, sarà un prodotto magnifico. Anzi, a questo proposito, so che sei molto amico di Saga.
Saga?
Dove voleva andare a parare questo avvoltoio?
- sì, siamo, siamo amici. Ma lei non ha...
- non potevo mica tenere tutto il vecchio cast, no? Te l'ho detto, dovevamo svecchiare lo show. Saint Seiya Omega aveva bisogno di un taglio decisamente più giovane. Oh, non fraintedermi, sono davvero grato a Saga, Aiolia, Dohko, tutti quanti, ma davvero non c'entrano nulla. Non stavolta.
Seiya, di malavoglia, annuì.
Aveva ragione, per una volta, quello stronzo di Meyer.
Le ultime scene, quelle del muro del pianto, erano state tremende.
Per renderle accettabili si era dovuto lavorare di cg come non mai.
Erano vecchi, i gold, e si vedeva.
Gli dispiaceva, cazzo, erano amici ma...
- però voglio rassicurarli. Gli sceneggiatori stanno preparando due spin off con loro. Apposta per loro, due prodotti, capisci? Non è ancora ufficiale, ma in via confidenziale, per tenerli buoni, puoi accennare loro qualcosa. Confidenziale, eh, niente gole profonde.
- ho capito, certo.
- è tutto, ragazzo mio?
No, ovviamente. C'era di tutto, ancora.
Una trama orrenda, personaggi ridicoli, un cast al risparmio, Saori ormai non più proponibile dopo lo scandalo con Bush padre ma comunque imposta eccecc.
- sì, sì è tutto. La ringrazio per avermi ricevuto, Seth. Adesso è tutto chiaro.
- ah, mi fa piacere, ragazzo mio, mi fa piacere. Conosci la strada, vero, o...
- non si disturbi, Seth, grazie. A presto, allora.
- quando vuoi, ragazzo mio, quando vuoi.
Si strinsero freddamente la mano, poi Seiya uscì dalla stanza e dalla villa.
Salì sulla sua prius - eh già, anche lì era arrivato il politicamente corretto - mise in moto e si diresse verso casa.
Rassegnandosi, la settimana successiva, a girare con un branco di ragazzini emo e la findazatina di Meyer.
E vabbè, se non altro aveva un lavoro

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FanFic / Showbiz vol.4 - vent'anni dopo
« il: 15 Luglio, 2019, 12:16:33 pm »
Piuttosto perplesso, Seiya posò sul tavolo gli occhiali - eh, già, con l'età era diventato lievemente miope - e fece scorrere lo sguardo su tutti i membri principali del cast, seduti lì insieme a lui.
Meyer, a cui il passare del tempo aveva, se possibile, reso ancora più vorace la fame di denaro, aveva pensato bene di rilanciare lo show girando una intera nuova serie - tre stagioni - di Saint Seiya.
E, a quanto pareva, l'idea era stata subito accolta con grande entusiasmo, li aveva fatto tornare di moda, facendo impennare la vendita di gadget, di cofanetti delle vecchie stagioni e il titolo societario in borsa.
Oltre, ovviamente, ad aver rivitalizzato la carriera di tutti loro.
Però, ad essere onesti, i problemi c'erano.
Per esempio, erano tutti visibilmente invecchiati e, sceneggiatura alla mano, erano passate poche settimane o quasi dalla saga di Nettuno.
- Peter, te la posso fare una domanda?
- dimmi pure, siamo qua per questo.
- mi spieghi come facciamo a sembrare adolescenti? Va bene che nei film anni novanta i diciottenni erano interpretati dai trentenni ma non ti pare si rischi di finire nel trash?
Il regista sorrise, comprensivo.
- tranquillo, sistemiamo tutto con la cg. Non c'è paragone rispetto a quella che si usava ai tempi della prima stagione.
E grazie al cazzo, pensò Seiya, erano gli anni ottanta.
Però...
Ma poi ci ripensò, ingoiò la frase acida che stava per dire e annuì, assorto.
E mica poteva mettersi subito a discutere con regista e colleghi, no?
Giusto?
D'altra parte il problema era evidente ma gli altri, vanitose merdacce, lo ignoravano volutamente e di sicuro non faceva loro piacere che qualcuno, lui poi, sbattesse in faccia la verità.
Saori, tanto per cominciare, aveva messo su una quindicina di chili - vabbè, ha avuto due figli, grazie tante - e la storia con Meyer era finita nel 93.
A quanto sembrava, quel viscido bastardo aveva imposto, nel cast, la sua nuova "fidanzata", una certa Pandora mai sentita prima, raccattata ad un provino di "ballando con le stelle".
Shiryu era decisamente stempiato e le sue...ehm...avventure in Tailandia avevano fatto crollare in maniera vertiginosa il numero di fan.
Hyoga, circa cinque anni prima, aveva avuto un infarto - quante volte gli si era detto di smettere con la polvere, quante - e ora gli era impossibile qualsiasi scena d'azione.
Ikki, dopo la McDowell - seguita a ruota da Demi Moore e Cameron Diaz - si era preso una sbandata tremenda per la Jolie.
E, dopo che lei si era sposata, era andato in depressione, Meyer lo aveva tirato fuori a forza dalla clinica.
Quanto a Shun, aveva pensato di investire i suoi soldi in una serie di affari fallimentari e adesso era tornato a lavorare per un tozzo di pane.
E gli altri...beh, che dire? Sembrava essere anche peggio.
Saga, seduto accanto a lui, gli mollò una gomitata.
- che dici, secondo te sto bene con una parrucca? - bisbigliò.
- più che altro dovresti toglierti quella panza.
- ehi, vaffanculo, ho cinquantacinque anni. Vediamo come ci arrivi tu, se ci arrivi.
Seiya ridacchiò, toccandosi per scaramanzia.
Saga era fra quelli messi meglio.
Mu non recitava da una vita, aveva messo su un allevamento di cavalli e si diceva fosse ben felice dove stava, tanto che Meyer aveva quasi dovuto ricattarlo.
Aldebaran aveva perso venticinque chili - un problema epatico causato all'abuso di dianabol.
Deathmask era alle prese con due cellulari, le sue onlus richiedevano attenzione.
Aiolia era in ballo per il ruolo di Wolverine e sembrava distratto, Shaka aveva pesanti questioni col fisco, Dohko e suo nipote sghignazzavano a più non posso, Milo non riusciva a staccare gli occhi dalla parete a specchio.
Shura, poi, era diventato intrattabile - va detto, per onestà che non era colpa sua. Rupert Everett, il suo nuovo fidanzato, lo assillava con scenate di gelosia giornaliere - Camus aveva fatto le cose peggiori, schiavo com'era del gioco, e Aphrodite pensava solo alla fica da circa...da sempre.
- la vedo dura, durissima.

Scena 73, esterno giorno.
Shaka scrive una cosa col sangue, Saga lo ammazza.
- pronti, ragazzi?
- l'armatura stringe, cazzo.
- ce la fai a resistere, Saga?
- ci provo, ma dobbiamo risolverla. Ma che avete fatto, avete riciclato quelle che usavamo nel 90? Dai, ragazzi, sono passati i secoli, per forza che stringe.
- dai, giriamo, poi vai in costumeria, vediamo che si può fare. Shaka?
- non mi ricordo le battute, porca miseria.
- ma come no?
- e che ti devo dire, stamattina le sapevo, adesso ho un vuoto.
- e che facciamo, allora? Vuoi tempo per rileggerle?
- ma no, dai, si fa notte. Non potete mettere un gobbo?
- e che siamo, in televisione? E comunque sei a occhi chiusi, come lo leggi?
- cazzo, cazzo, cazzo.

Scena 115, esterno notte.
Aiolia, Milo e Mu attaccano Rhadamantis ma vengono sconfitti. Siete pronti? Aiolia?
- ci sono.
Saori, dietro la telecamera, bisbigliò nell'orecchio di Seiya.
- certo che sì è tenuto veramente bene, Aiolia.
- sì ma io non la farei la vita che fa lui. Lo sai che si sveglia alle tre del mattino per allenarsi?
- Milo?
- pronto pure io.
- e anche Milo, non sembra invecchiato di un giorno.
- per forza, sta al secondo lifting.
- ma dai?
- guardalo bene...
- Mu, Rhada?
- a posto.
- bene, allora, ci siamo.
Silenzio.
Motore.
Ciack in campo.
Azione.
I quattro si lanciano nel combattimento, Rhadamantis, attaccato ai cavi, apre le ali dell'armatura, si da una spinta energica in avanti, torsione del gusto e...
Stomp. Crack.
- oddio, cazzo, stop, stop, mi sono spaccato una gamba.
Ma che cazzo di un cazzo...oddioooo.
- stop. Chiamate un medico, subito.

- scena 36/b. Esterno, notte. Shun, Seiya e Caronte sulla barca.
- ehm...Peter?
- sì?
- te l'ho detto che non so nuotare? Vabbè, a parte questo, l'acqua fa schifo.
- tranquillo, Seiya, le subacquee le giriamo un piscina.
- sì, ok, ma.qui stiamo stretti, metti che mi alzo, così e poi...oddioooooo.
Splash.
- aiuto, tiratemi fuori da qui.

- Scena 58. Esterno notte. Shyriu e Hyoga scappano sotto una grandinata di rocce.
- seh, come no, Peter. Lo sai che ho il cuore a puttane, mica ce.la faccio a correre.
- ma dai, è un take da pochi secondi. Giusto per il primo piano, il totale lo facciamo dall'alto con la controfigura.
- no no no, col cazzo, io non la rischio la pelle.
- Hyoga, devi essere tu, dai, non fare il bambino.
- manco per sogno, senti Meyer, io non lo faccio.

- scena 162. Julian e Sorrento si fermano sul promontorio e mandano le armature d'oro nell'Elisio.
- Petev?
- dimmi.
- senti, ne pavlavo con Fvank, in sceneggiatuva, pensavamo di allungave un po' la battuta. Sai, no, una specie di monologo del dio, tipo quelli di Saovi.
Il regista alzò gli occhi al cielo, succedeva ogni volta con quello stronzo pieno di sé.
- ehm...sai cosa, Ju? Così si perde tantissimo la parte di recitazione espressiva. A piano di produzione c'è una carrellata circolare sul tuo viso, con una battuta più lunga non avrebbe senso.
- una cavvellata?
- sì, sì, una roba epica, Meyer era commosso.
- ah.
- guarda, l'ho preparata per una settimana.
- cevto, cevto, ho capito. Allova, pvontissimo.

- Scena 195. Esterno giorno, Ikki, Seiya e Saori...
- ricominciamo? Ricominciamo, porcamiseria? È perché sono grassa che mi mettete in quel vaso? È per quello? Passano gli anni ma siete sempre i soliti stronzi, io non ci vado là dentro.
- ma Saori...
- fottetevi tutti

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FanFic / Showbiz vol. 3 - la vendetta
« il: 13 Luglio, 2019, 18:32:19 pm »
- cosa? No. Nonono, io lì non ci entro. Levatelo dalla testa, cazzo.
- te lo ripeto per la terza volta, Saori, la scena è quella. E la conosci da settimane.
- te lo ripeto io, che non ci entro. Non ci vado in quella specie di scatola piena d'acqua, lo sai, lo sanno tutti che sono claustrofobica, per la miseria, che devo fare, chiamare il mio agente e piantare un casino tremendo? Eh? Lo faccio, lo faccio? Guarda che lo faccio.
Seiya rivoltò gli occhi al cielo.
Le divergenze fra Saori e il regista stavano diventando all'ordine del giorno.
Ora, al di là del fatto che il clima sul set stava diventando irrespirabile, il ritardo si stava accumulando.
E tutti stavano iniziando ad averne le palle piene.
Shiryu non ci parlava più, con Saori, Hyoga la salutava appena.
Persino Ikki, che di pazienza ne aveva da vendere, iniziava a dare segni di cedimento.
- non sto scherzando, dico davvero. Anzi, sai cosa faccio? Prima telefono a lui, poi al produttore e vediamo.
- ma fai quel cazzo che ti pare, comunque sia tu la giri, questa scena.
Saori, a questo punto, si mise a strillare e poi, in lacrime - mah - girò sui tacchi per andare in bagno a sfogarsi.
Il regista sacramentò a mezza bocca.
Seiya scosse la testa.
Sempre a lui toccava, sempre a lui.
Fece un cenno rassicurante alla troupe...
- ok, gente, mezz'ora di pausa.
...e la raggiunse.
Doveva avvicinarsi con cautela, non voleva subire in pieno una crisi isterica.
Piano, con garbo, le porse un fazzoletto.
- che cazzo vuoi, lasciami in pa...oh, Seiya, sei tu. Grazie, grazie mille. Scusami, eh, scusatemi tutti.
- ma no, stai tranquilla...
- lo hai sentito, dico, lo hai sentito? Ma ti rendi conto?
- Eh, lo so, lo so.
- queste cose le chiedono sempre a me. Sempre. E prima mi sono quasi presa una polmonite in quel posto pidocchioso, e adesso mi chiudono in una vasca...
Oziosamente, Seiya ricordò quella volta in cui gli era toccato fare cliffanger con Jamian senza controfigura.
- ...e poi cos'altro? Me lo dici tu? Con chi devo scopare per essere trattata in maniera decente?
Seiya sorvolò sul fatto che prima di Mayer, Saori si era passata Aiolia, il direttore della fotografia e uno degli sceneggiatori.
- ma cosa dici, dai? Lo sai che ti fanno fare queste cose perché...perché sei la più brava.
- uhm?
Forse ci siamo.
- ma sì, dai, perché credi ti abbiano scelta per la parte, scusa?
- ma ho poche battute e sempre le stesse, faccio solo...
- e cosa vuol dire? Ti fanno un primo piano dietro l'altro, è l'espressione a contare.
- tu dici?
- ma certo che dico. Poi, ok, non c'è solo quello, eh...
Le si avvicinò con fare confidenziale.
- ...dico, ti sei vista?
Lei arrossì - sì, era davvero brava a recitare - compiaciuta.
- ma dai...
Ok, l'ultimo affondo, via.
- Eh, se non fossi sposato...
Lei gli diede un finto schiaffetto sulla mano.
- ma Seiya, che dici?
- Eh, che dico...E comunque non lo penso mica solo io, eh. Dovresti sentire i commenti degli altri.
Lei si irrigidí.
- quali commenti?
- ma sì, dai, lo sai come va fra uomini. Ci parliamo, no? Sei stata eletta la più sexy del set. Ora, non posso darti i nomi, sai, molti sono impegnati ma...
Il sorriso di Saori illuminò la stanza.
Alle sue spalle, troupe e cast, al completo, si diedero il cinque.
Seiya li guardò male.
La prossima volta ci pensa qualcun altro, eh!
- ah, ho capito, ho capito.
Va bene, avete vinto, ci entro in quella vasca.
Però che sia una cosa sicura.
Il regista, compiaciuto, la rassicurò in tutti i modi, farcendo la conversazione con lusinghe e complimenti.
Quanta pazienza, santoddio!
- grazie, vecchio.
Seiya si accese una lucky - aveva ricominciato, maledetto stress - e poi ne offrì una a Shun.
- Eh, grazie, grazie un cazzo. Datemi una mano, ogni tanto.
- ma se ascolta solo te.
- sì? Beh, non mi sembra che voi ci proviate più di tanto.
- è insopportabile.
- ...va bene, è vero, è insopportabile. Però potreste fare di meglio. Per provare a  capirla, dico.
- e che vuoi capire, è una stronza.
- sì, che ha una marea di problemi.
- e che sarà mai...
- e magari potreste smetterla di farle sempre scherzi idioti. Uno ogni tanto va bene, ma state esagerando.
- stai diventando vecchio e noioso. Dai quella della nutella nel suo cesso era veramente spassosa.
- oh, andiamo...e va bene, è vero, faceva davvero ridere. Ma senti un po', tu non giri domani?
- sì, ma devo parlare con la segretaria di edizione.
- ah, ok. Dí un po', che ne dici dei nuovi?
- bah, non c'è malaccio. Baian è un tipo simpatico, se non si scordasse sempre le battute.
- non me ne parlare, un take abbiamo dovuto farlo venti volte. Gli scappava da ridere in continuazione.
- sai con chi ho lavorato strabene? Con Io.
Non parla una parola di inglese ma si vede che si sbatte.
- tra l'altro, lo sapevi che Kasya ha una cattedra a Stanford?
- Eh?
- Eh già, insegna storia e letteratura medievale. Da non crederci, vero?
- diavolo, no. E chi lo avrebbe mai detto? Ciao, Saga.
- ciao ragazzi, tutti bene?
- le solite crisi. Tu?
- idem. Anche la.mia ex suocera mi rompe, non bastava Greta.
- quando sei in scena?
- un paio d'ore, devo passare dalla parrucchiera per il colore.
- com'è che si chiama, il tuo personaggio?
- kanon, mio gemello.
- potevano chiedere a De Vito.
- quanto sei spiritoso, ci vediamo dopo.
- silenzio, scena 21/b, raccordo. Athena, imprigionata nella colonna, espande il cosmo e prega. Julian, tieniti pronto, dopo tocca a te e a Sorrento. Se ce la facciamo proviamo a impostare anche la 45, con Isaak, ok? Pronti?
Pronti.
Silenzio.
Motore.
Ciack in campo.
Buona, facciamone un'altra per sicurezza.
Buona. Perfetto.
- dai, però è brava.
- chi, l'arpia? - disse Hyoga, appena arrivato alle spalle di Seiya e Shun.
- dai...
- ehi, non mi fraintendere, ha un bel faccino, due gran belle tette ma non si sopporta. Maledetto complesso da ape regina.
- ape corina, vorrai dire.
- shhhhht, e non vi fate sentire, dai, se no ricomincia.
- va bene, va bene.
- tu, piuttosto, non dovresti fare un po' di memoria con Isaak?
- è al trucco, si crepa di caldo lassù.
- ah, ma allora non è guercio.
- ma va, l'idea è venuta a Frank.
- così, senza motivo?
- così.
- Hyoga...
- Eh.
- guarda che hai...ecco...sul naso...della...dai...
- oh, cazzo.
Buona si ripulí la narice col dorso della giacca.
- c'è ancora?
- no, ora sei a posto.
- ah, grazie.
- sí, però cazzo...
- lo so, lo so, non ti mettere a farmi la predica anche tu, papà, eh.
- per carità, cazzi tuoi.
- ecco. Shiryu lo avete visto?
- è fuori a firmare autografi, tanto per cambiare.
- ma ce l'ha una fan sopra i dodici anni?
- stava alla disney...lo sai che il tizio con la cresta...come si chiama...Krishna, è il suo life coach?
- e meno male che la produzione non voleva raccomandati.
- ah, beh, ce ne sarebbe da dire.
- ecco, chiudiamola qui che è meglio. Ikki?
- ehm...
- dove sta Ikki?
- ecco...dovrebbe essere in costumeria ma...
- ma?
- ma? Ma vuoi parlare, porcamiseria?
- l'ho...l'ho visto lingua in bocca con quella nuova, con Thetis.
- cosa?
- Eh già.
- beh, gran bella fi...
- smettila. Se lo becca la sua donna li ammazza tutti e due.
- è sul set dell'ultimo di Soderbergh, a qualche migliaio di chilometri, non c'è pericolo.
- sì, come se tutti, qui, si facessero i cazzi loro.
- io, poi, mi chiedo come ti possa venire voglia di scopare in giro quando stai con Andy mcDowell.
- boh, avrà voglia di carne giovane, la ragazza non arriva a diciannove anni.
- va bene, però zitti, eh. Stasera gli parlo. Se proprio lo deve fare, almeno non lo faccia in maniera così plateale.
- ok, gente, scena 39. Julian, sei pronto?
Julian alzò il pollice.
- sono nato pvonto, Bvian.
...
- ditemi che lo.doppiano, vi prego

5
FanFic / Showbiz vol. 2
« il: 13 Luglio, 2019, 13:00:55 pm »
- quella macchina è inutile, Seiya. Te lo avevo detto che era meglio una monovolume.
- ma dai, amore, lo sai che ci tengo. È la prima che...
- sì, e io non la posso usare, non ci entro.
- ma non puoi mandare Karen a...
- no, non posso mandare Karen. Sto in casa tutto il giorno, mi piace andare a fare la spesa.
- va bene, quando torno ne parliamo, d'accordo?
- ...d'accordo. Mi chiami domani?
- come sempre. Ciao, ti amo.
- anche io.
Click.
Al diavolo Meyer, doveva proprio mandarli a girare gli esterni sui fiordi?
Ci mancava giusto uno dei soliti ritardi e non sarebbe arrivato a casa in tempo.
E se non fosse arrivato in tempo per la nascita di suo figlio, Svetlana gli avrebbe reso la vita impossibile per l'anno successivo.
E se questo fosse successo...
- ehi, Seiya.
- Thor, che fai qua?
- non hai letto i giornalieri? Abbiamo un recupero da fare.
- un recupero?
- Eh. Sembra che la scena nel crepaccio abbia dei problemi.
- ma l'abbiamo girata due settimane fa.
- che vuoi che ti dica?
- oh Gesù...
- Meem è incazzato nero con la produzione. Gli stanno sballando tutti i tempi. Lo sai che fra tre giorni deve essere a Los Angeles per un concerto.
- mi ha pure procurato i biglietti, figurati, Svetlana non parla d'altro.
- se gli fanno saltare la data fioccheranno cause, te lo dico io.
- dagli torto.
- sei dei nostri stasera?
- figurati se me la perdo, arrivano anche Saga e Deathmask con un loro amico.
- chi?
- boh, pare sia un regista. Un certo Quentin. Quando ha saputo che giravamo qua, sul fiordo dei Tognazzi, ha riso per un'ora di fila.
- perché? Cos'ha che non va questo posto?
Prima che Seiya potesse rispondere, Saori irruppe come una furia nella sala comune dell'ufficio di produzione.
Rossa in faccia, visibilmente raffreddata, era al limite della sua - peraltro scarsa - sopportazione.
- Janiiiiiiine, questo posto è una merda. La mia roulotte è una merda. Il cibo è una merda. Possibile che in questo buco di culo schifoso dimenticato da Dio e dai santi non capiscano il concetto di riscaldamento.
Janiiiiiiiine...
- principessa... - bisbigliò Thor.
Seiya tentò di scomparire dietro il gigante ma fu un poco troppo lento.
Lei lo aveva visto.
E da qualche tempo, vai a sapere perché, si era messa in testa che fosse l'unico, fra tutti i colleghi, a capirla.
Puntualmente, ogni santo giorno, veniva a scaricargli addosso lamentele di ogni genere.
Era snervante, ma Seiya, in fondo, era un buono e la sopportava.
Girava voce, peraltro, che Meyer avesse preso una sbandata clamorosa per Hilda, attrice e produttrice associata.
Hilda, da parte sua, era estremamente cortese ma dichiaratamente non interessata agli uomini - in Europa queste cose non erano un problema - quindi Meyer era frustrato.
E Saori era frustrata.
- Seiya, ho ragione o no? No, dimmi, ho ragione o no?
Seiya le allungò un tazzone di cioccolata bollente appena uscita dalle macchinette.
- hai ragione, hai ragione. Bevi questa, ti fa bene. Senti, sai che facciamo? Lascia tranquilla Janine. Ti porto una stufetta elettrica più tardi. Svetlana ha insistito per farmela portare ma non la uso, vedrai come scalda.
- sa di cartone, questa roba, non la sanno fare la cioccolata. Seiya, sei un tesoro, davvero, come farei senza di...Janineeeee, a che ora pensa di girare la scena del promontorio, Kubrick, là, l'ultima volta era buio pesto, ci saranno stati meno venti e io ero in camicia da notte, ma dico...
Blablabla, come parlare al muro. E vabbè.
- allora?
- uhm?
- perché ridevano?
- cosa?
- Saga e Death...del fiordo.
- ah, già, pare che Tognazzi abbia comprato il fiordo di Fankul perché in italiano vuol dire...fottiti.
Thor scoppiò a ridere come un matto, Seiya con lui.
Nel frattempo erano arrivati anche Syd e Siegfried.
In serata toccava a loro, un interno, comodi e al caldo.
Syd si attaccò al telefono, una conversazione piuttosto concitata.
- che ha Syd?
- pare che sua cognata abbia qualche problema di salute. Bud se ne frega, è sempre stato uno stronzo, e tocca a lui occuparsene. Poveraccio, non lo invidio.
- oh, ragazzi...ragazzi...
- che c'è, Sieg?
- avete visto Flare, da queste parti?
- no, perché?
- oh, grazie al cielo.
Siegfried tirò fuori una fiaschetta di metallo dalla tasca del cappotto e tracannò una sorsata di tutto rispetto.
- ma no, dai.
- e cazzo, copritemi, no?
- se tua moglie viene a rompermi le palle come l'ultima volta, io...
- ma no, tranquillo, ci sto attento.
- guarda che si sente, hai un alito da brandy che piega le.rotaie del tram.
- che noioso.
- lo dico per te, eh, che ti ha detto il medico l'ultima volta?
- ti ci metti anche tu, adesso?
- venti minuti e si gira, attori sul set, grazie.
- hanno già finito, di là?
- Meggy e Shiryu? A quanto pare buona la prima.
- fammi indovinare, era nudo?
- come al solito, è diventata una barzelletta.
- però mi hanno detto che è venuta veramente bene.
- ci credo, quando ho saputo che Megrez era nel cast ho sbocciato champagne.
È veramente bravo, bisogna dirlo.
Thor si chinò con fare confidenziale.
- non lo dire troppo forte quando c'è Sieg in zona.
- uhm? Perché?
- perché prima di rovinarsi con l'alcol era anche più bravo, solo che ha preso molto male il fatto che lo abbiano sostituito con Lundgren, anni fa, su Rocky.
- scherzi? Non lo sapevo.
- Eh già. La parte era già sua, poi lo hanno beccato a guidare completamente ubriaco e...lo sai come vanno queste cose.
- Thor e Seiya in scena, si gira.
Disciplinati, i due uscirono dall'ufficio per andare a raggiungere la seconda unità di regia, nel crepaccio.
Ma li aspettava una brutta sorpresa.
L'aiuto regista e il direttore della fotografia non si potevano vedere, considerandosi a vicenda cretini incompetenti, e ogni occasione era buona per litigare.
- voglio quel cazzo di skyking lì, per la miseria, dove sta il problema?
- il problema è che così non riesco a illuminare la scena, porca miseria, perché credi la stiamo rifacendo?
- perché hai fatto cazzate l'ultima volta, ecco perché.
- ehi, ritira subito quello che hai detto.
- ma vaffanculo.
- ma vacci tu, razza di...
Sospirando, i due capirono che sarebbe andata per le lunghe.
E non erano i soli.
Hyoga e Hagen ridacchiavano poco distante, Shun guardava sfacciatamente il culo della nuova stagista, Ikki si stava cacciando le dita nel naso, pensando che nessuno badasse a lui.
- senti, me lo fai un favore?
- dimmi.
- riesci a colpirmi un po' più piano? L'ultima volta c'è mancato poco che mi rompessi una costola. E poi con Svetlana ci parli tu.

6
FanFic / Showbiz
« il: 12 Luglio, 2019, 16:46:54 pm »
 Driiiiin...driiiiiin....driiiin...
- Oh, I cannot explain, every time it's the same, oh, I feel that it's real, take my heaaaaaaaart.
I've been lonely too long, oh, I can't be so str...
Driiin...driiin...driiiin...
- pronto? Sì, sì, scusa Janine, sono un po' in ritardo. Ma certo, sto arrivando, dieci minuti.
Seiya chiuse la comunicazione e rimise la cornetta nel suo alloggiamento nel bracciolo della macchina.
L'aveva ritirata tre giorni prima.
Una countach Lamborghini nuova di pacca - ogni tanto ci vuole, qualche sfizio - dopo averla spuntata in extremis con sua moglie che, invece, voleva una monovolume.
Peccato non la facessero spider, sarebbe stato magnifico girarci scappottato su rodeo drive.
E vabbè, pazienza.
Specchio, freccia a destra.
Giù il finestrino.
La guardia, nel gabbiotto, lo riconobbe e alzò la sbarra, salutandolo con un cenno per poi tornare a concentrarsi sulla rivista porno che stava sfogliando.
A passo d'uomo parcheggiò vicino al teatro di posa, diede ancora due allegre sgasate, spense la macchina, scese ed entrò nello studio.
La segretaria, Janine, lo salutò con un sorriso.
Era alle prese con due telefoni, un caffè lungo, tre agende e il vice direttore di produzione ma riuscì comunque a passargli il copione della giornata.
Lui lo prese e andò a sfogliarlo, sedendosi sulla solita vecchia poltrona.
Stese le gambe, prese un pacchetto di lucky strike mezzo accartocciato dalla tasca ma poi ci ripensò.
Aveva promesso alla moglie, sei mesi prima, di smettere.
- eccheccazzo, Janine, ti avevo detto di mandarmelo ieri, il copione, ieri. E poi cosa sono queste modifiche? Eh, cosa sono? Questo regista nuovo inizia a rompere seriamente i coglioni. Vuole che lo dica al produttore? Glielo devo dire? Eh? E comunque...
Blablabla, Saori era la solita prima donna e da che scopava con uno dei produttori era sensibilmente peggiorata.
Capirai, poi, quale problema poteva mai esserci, doveva dire sì e no un paio di battute oggi, quanto la faceva lunga.
- ciao bello.
- wiiiiii, ciao Saga. Oh, siediti, siediti, ci sono un paio di ciambelle.
- ah, lo sai che mi fanno acidità, maledetta glassa.
- un caffè te lo prendi?
- sì ma ce lo facciamo mandare, eh, che alle macchinette fa schifo. È tuo il mostro là fuori?
- ritirata tre giorni fa. Janine, ce li fai portare un paio di caffè da Tony, per favore?
- certo tesoro.
- sei un angelo.
Saga ridacchiò sotto i baffi.
- come l'hai convinta Svetlana?
- le ho promesso che sarei andato piano.
- e...?
- le ho giurato che fra un paio di settimane ci saremmo presi del.tempo e ce ne saremmo andati in vacanza.
È un pezzo che voglio vedere l'italia.
- due settimane? Ma ci sono da fare i raccordi fra la seconda e la terza casa, non lo hai letto il piano di produzione?
- mi inventerò una scusa e ce la porto a fine stagione.
- sei una merda.
- tutto bene, tu?
- ma sì, tutto bene, se non fosse che a settembre mio figlio inizia la scuola e...
- come sarebbe inizia la scuola? Ha già sei anni?
- Eh già.
- oddio, come passa il tempo. E Greta?
- a parte spennarmi col mantenimento? Bene, credo. Se non altro abbiamo smesso di lanciarci i piatti ogni volta che ci vediamo.
- è già qualcosa, no?
- lascia stare, se non fosse per questo lavoro sarei sotto i ponti.
Seiya gli si fece più vicino, abbassando la voce.
- a proposito di ponti, Ban se la passa malissimo.
- ma scherzi?
- Eh già. Qua lo pagano una miseria e lavora sì e no quattro volte l'anno.
- e che pretendeva? Lo hai sentito recitare, no?
- dai...
- senti, io ci ho anche provato ad aiutarlo, in clinica a disintossicarsi ce l'ho portato io, l'anno scorso. Ti ricordi quanto è durata? E quella volta che lo hanno beccato in un motel con due puttane messicane? Ora, io non sono un bacchettone ma è illegale, cazzo. Che dobbiamo fare?
- ah, niente, che dobbiamo fare? Però ha moglie e figli, non è che possiamo sbattercene i cogl...
- va bene, vedo di passare a casa loro, tra oggi e domani.
- ma dove sono gli altri?
- Hyoga e Shiryu li ho visti andare dal truccatore, prima.
Ikki sta arrivando, Shun è scivolato sul vialetto mentre prendeva il giornale.
Oggi c'è la controfigura.
- s'è fatto male?
- no, qualche livido. Sta a casa una settimana, che per inciso non gli pagano.
- ma stai scherzando.
- magari. Lo conosci, no, quel bastardo di Meyer, è attaccato ai soldi come una mosca alla merda.
- sì ma mica può farlo, ci sono dei contratti...
- e secondo te non gliene ha fatto firmare uno che parasse sempre e solo il suo culo? Con la scusa, poi, che era minorenne, quando ha firmato, si è intortato per bene quell'alcolizzata della madre.
- sì vabbè, comunque mica può farlo.
- però lo sta facendo. Dai, è fantascienza pensare che qualcuno gli si metta contro.
Saori, sculettando, passò loro accanto senza nemmeno guardarli, fingendo di concentrarsi sul copione.
- è veramente una stronza.
- lasciamo perdere, nessuno mi leva dalla testa che sia colpa sua se hanno licenziato quei tre...come si chiamavano?
- ma chi?
- ma sì, dai, quei ragazzini...dai, che lo sai...
- aaaaaaaah, i cavalieri d'acciaio.
- Eh, loro.
- ma dici?
- e come no? Ci aveva litigato per non so più quale stupidaggine giusto cinque giorni prima che tagliassero i personaggi.
Daichi, adesso, lavora da McDonald, figurati.
- se non altro ce l'ha, un lavoro.
- già.
- ragazzi, in scena!
- arriviamo.
I due si alzarono - i caffè, ormai erano freddi - ed entrarono sul vero e proprio set.
Il regista ci teneva a girare con la scenografia, invece che al green screen, e quindi i ragazzi avevano riprodotto il retro del tredicesimo palazzo, con tanto di colonnato, mosaici al pavimento e tre quarti della statua di Athena.
Aiolia, Milo, Mu, Shaka e Aldebaran erano già ai posti, provando fra loro le battute.
- ma che ha Aldebaran? Saranno tre mesi che è sempre incazzato.
- capirai, dopo Terminator, Arnold gli ha frenato anche la parte in "Commando".
Era arrivato al provino finale, stavolta ci credeva.
- ahia.
La controfigura di Shun era già per terra, Hyoga si stava mettendo del collirio negli occhi, nel vano tentativo di non far notare alla troupe che aveva appena pippato e Saori rompeva le palle alla parrucchiera sostenendo di avere dei capelli fuori posto.
- e figurati se quei due non sono in ritardo.
- ma sì, che sarà mai...ehi, chi ne ha mollata una? Dai, cazzo ragazzi, siamo al chiuso.
- silenzio! Allora ragazzi, scena 65A.
Saga sfida tutti gli altri cavalieri, Seiya si alza traballando, espande il suo cosmo, lancia il suo colpo. Ci siamo?
- ok.
- ok.
Di corsa, un poco trafelati, arrivarono anche Ikki e Shiryu.
Seiya diede una lieve gomitata a Saga.
- e tanto per cambiare è nudo.
- piace alle ragazzine, che ci vuoi fare?Non so quanto hanno scucito, alla disney, per rescindere il contratto che aveva.
- alla disney?
- non lo sapevi? Faceva quella sitcom per adolescenti...ah, come si chiama, porcamiseria...
- silenzio. Pronti? Ok, allora tutta la crew dietro la cinepresa.
Motore?
- partito.
- ciak in campo.
- saint seiya, scena 65A, prima.
...
- e....azione.

7
FanFic / Il tempo non perdona
« il: 06 Luglio, 2019, 14:07:28 pm »
C'è un piccolo bar, da qualche parte, in europa.
Dico da qualche parte perché, strano a dirsi, sembra essere dappertutto e in nessun posto.
La porta è piccola, di solito dietro una scala anti incendio o in un vicolo buio o vicino a una fermata della metropolitana.
Non ci sono insegne, niente luci o vetrine e può capitare di passarci davanti, senza sapere di cosa si tratta.
Dopotutto è solo una porta come un'altra, no?
Insomma, ci si può entrare solamente se si sa cosa cercare.
Fateci un giro, però, se vi capita e dite pure che vi mando io.
In questo caso vi sarà facile arrivarci.
Bussate ed entrate, sarà il barman in persona ad accogliervi.
È un uomo gioviale, alto e vigoroso nonostante l'età - si dice abbia quasi settant'anni - lo abbia reso decisamente corpulento e adiposo.
È un po' duro d'orecchie, dovete alzare la voce se volete bere.
Se siete capitati lì per caso, non prendete un tavolo.
Anzi, non prendetelo e basta.
Sono tutti prenotati.
Può sembrare strano, soprattutto la mattina quando è vuoto.
Ma sono tutti prenotati.
E poi le storie migliori si sentono al bancone.
Accomodatevi, ordinate da bere - a proposito, il whisky sour è particolarmente buono - e aprite le orecchie.
Non dovete avere fretta, la giornata è appena cominciata, le luci non si sono ancora abbassate.
Di solito il primo ad arrivare è un tizio molto alto e sempre incazzato.
Un inglese, si dice.
Pressappoco ha la stessa età del barman ma a differenza sua è completamente pelato.
Si siede in fondo, senza dire una parola e aspetta che il barman gli porti una bottiglia di scotch.
Poi accende un mezzo sigaro, apre il giornale e legge per ore il programma delle corse mentre il livello del liquore nella bottiglia scende visibilmente.
Non che sia un problema, comunque, è solo la prima della giornata anche se nessuno lo ha mai visto ubriaco.
Il barman, a questo punto, vi chiederà qualcosa su di voi.
Niente di impegnativo, ve l'ho detto, no, che è un tipo gioviale?
Vi ascolterà interessato mentre pulisce il banco - o qualche bicchiere - ma prima di potervi rispondere entrerà un altro cliente.
Questo è più simpatico, però.
Deve essere una specie di musicista, o forse lo era, difficile che ne parli.
Ma è lui che si occupa di non fare mai tacere il jukebox.
Sopra il suo tavolo c'è un quadro.
Una bella scogliera su un mare calmo.
Ogni tanto si gira e lo fissa, poi cambia canzone.
È un tipo dai gusti fini e beve solo vino.
A questo punto, senza che lo ordiniate, vi arriverà il secondo bicchiere.
E, vi sembrerà strano, ma sarà esattamente quello che avreste ordinato.
Anche il barman si versa da bere - di solito qualche terrificante, pacchiano cocktail caraibico - e brinda con voi ridendo forte.
E poi il locale inizia a riempirsi.
C'è un tavolo da quattro, in un angolo illuminato.
E quattro anziani signori giocano a carte.
Si vede che ci tengono, sono sempre eleganti.
E se li senti parlare, pare di essere in una barzelletta.
C'è un italiano con la faccia da criminale, un francese snob, un greco mascellone e un cinese che sembra aver conosciuto di persona i faraoni.
Non fate troppo caso alle loro imprecazioni quando qualcuno fa una giocata sbagliata, sono anziani, dopotutto.
E comunque fanno molto più casino quelli che li guardano giocare.
Cinque minuti dopo, in genere, arriva un tedesco.
Un tipo alto, distinto.
Deve essere parecchio benestante, pare che il rombo della sua ferrari si senta da chilometri.
A guardarlo direste che non possa avere più di venti, venticinque anni, ma, questo sì che è strano, vi sembrerà quasi una finzione.
Gira voce che sia...come dire...invulnerabile.
All'invecchiamento.
Assurdo, vero? Cosa non direbbe la gente piuttosto di ammettere di aver fatto qualche ritocco.
E poi, a guardare bene, potete vedere il segno del bypass sul suo petto, non chiude mai la camicia.
Ogni tanto lo raggiungono due donne.
Due donne, già, e anche loro devono aver lasciato una discreta fortuna nelle mani di chissà quale chirurgo, ma bisogna ammettere che, almeno da lontano, il risultato è sorprendente.
Bastardo fortunato.
Bevono birra rossa. Tanta.
In ogni caso, il locale si anima.
Arrivano altri avventori.
Un attempato playboy con una rosa all'occhiello, un nobilluomo pieno di rimpianti al cui dito scintilla un pesante chevalier di ferro e ametista, un bizzarro attore di teatro col cilindro in testa, un'aristocratica signora dai capelli nerissimi che fuma in continuazione da un bocchino chilometrico.
Non è mai sola, c'è sempre qualcuno che offre per lei, nonostante sembri tanto infelice.
E infine un tipo arcigno senza un occhio - anche lui, di tanto in tanto, si gira verso il quadro - che fissa in cagnesco un vecchietto segaligno con una notevole zazzera nera e il fuoco negli occhi.
Nessuno sa perché non si siano simpatici, non si sono mai rivolti la parola.
Comunque, sanno tutti, no, cosa succede
quando si mettono tanti vecchi insieme?
Diventano nostalgici.
E allora iniziano a parlare e se avete un poco di sale in zucca li state ad ascoltare.
Non credete a tutto, però.
Non in senso letterale.
Amano parlare per.metafore. O forse sono solo un po' rincoglioniti.
Ricordano di quando erano giovani, quando erano soldati.
Oh, non fate quelle facce. Anche se non lo sapete, c'è e ci sarà sempre una guerra da qualche parte.
E infatti parlano di vittorie, di sconfitte, di compagni perduti.
Di quello che si rialzava sempre, non importa con quanta forza lo mandassero a tappeto.
E vinceva. Vinceva sempre.
Se la passa male, ora, è un vegetale da qualche parte, nel sud.
Ma doveva essere davvero un osso duro se persino il barman sembra a disagio.
Poi c'era quello saggio - si spogliava sempre, ad un certo punto, e piaceva alle donne - il sovietico che era sopravvissuto al naufragio - ora vive in sud africa, con la moglie - e quello sensibile, che aveva sempre una parola buona per tutti.
E poi si fa il silenzio.
Perché ce n'era un altro. Uno che metteva i brividi.
Uno che parlava poco, accompagnato dalla paura.
E dalle fiamme e dalla follia.
Nessuno ne sa più niente, ma pare sia ancora vivo.
La donna dai capelli neri sospira, poi butta giù d'un fiato il suo bicchiere di snow queen.
Le canzoni si fanno più malinconiche, qualcuno asciuga una lacrima, l'inglese pelato si fa scappare una bestemmia, l'ennesima scommessa persa alle corse.
Il barman lancia un altro giro - bevi, ragazzo, offre la casa - e i vecchi tornano a parlare.
Ora ridacchiano, si sfottono bonariamente l'uno con l'altro.
Gli ultimi ad arrivare sono due fratelli.
Si dice si detestino e infatti siedono sempre a due tavoli diversi e non si parlano mai.
Però uno di loro, appena arriva, prende uno dei libri sullo scaffale e si mette a leggerlo ad alta voce.
Suo fratello non ci vede più.
Altro giro, altra canzone.
Ora il locale è pieno, trovare un posto al banco sembra impossibile.
Silenzio, adesso.
Una rossa prosperosa - ai suoi tempi deve averne fatti ammattire parecchi, di uomini - sale sul banco e inizia a cantare.
La voce è un poco arrochita da alcol e tabacco ma non è niente male.
E non è sola.
Una bionda - anche lei, ai suoi tempi, doveva avete la fila fuori da casa - sale sul palco insieme a lei.
Balla al ritmo della musica, facendo schioccare una frusta.
Gli uomini applaudono ogni volta in cui una coscia fa capolino dallo spacco del vestito.
E chiedono il bis.
E poi un altro.
La fumatrice dai capelli neri se ne va.
Eh sì, si è fatta sera.
Non sembrava, vero, che fosse passato tanto tempo da che siete entrati?
E infatti, pare, che il tempo non passi quando si è in buona compagnia.
Vi sentite stanchi?
Oh, andiamo, bevete ancora un altro bicchiere.
L'ultimo della serata, d'accordo?
Domani sarà un altro giorno, chissà dove si troverà la porta del bar.

8
FanFic / La bella dei prigionieri
« il: 24 Giugno, 2019, 16:42:49 pm »
Napoleone era venuto.
Aveva spazzato via il medioevo - i principi e i re e i papi -
dall'Europa portando la rivoluzione insieme alle sue armate.
Pochi anni era durato il suo impero.
Pochi anni prima che fosse sconfitto e imprigionato per sempre.
Perché fosse dimenticato.
Lui no, non era possibile.
Apparteneva alla storia adesso.
Quello che aveva fatto.
Perché tutto tornasse come prima.
Ma il popolo non dimentica facilmente.
Non dimentica la libertà quando la ottiene.
Anche solo per una notte.
La migliore, la più indimenticabile delle amanti.
E principi e re e papi avevano reagito.
Nel solo modo che conoscevano.
Mandando truppe a uccidere.
E saccheggiare.
E oltraggiare.
Perché nessuno osasse riprovare a contestare la loro autorità.
Che veniva da Dio.
E per questo la donna stava per morire.
Aveva ospitato e nascosto un patriota.
Un combattente per la libertà.
Un traditore colpevole di lesa maestà.
L'aveva accolto, curato. E l'aveva ascoltato.
Quando ancora piangeva il marito morto in guerra, l'aveva
ascoltato.
Per ore, parlare con trasporto dei suoi ideali.
A cui aveva consacrato vita.
E il più grande, il più nobile di tutti, aveva un nome che metteva
paura.
Libertà.
E anche lei se ne era innamorata.
Ma cosa poteva fare lei? Era solo una donna. Una donna sola.
E poi, quando i soldati l'avevano trovato, lei l'aveva aiutato a
scappare e si era addossata la colpa.
All'inizio nessuno le aveva creduto – era l'unico vantaggio di
essere donna, a quei tempi – ma poi era diventato necessario
trovare un colpevole.
Una vittima.
Perché il popolo voleva una vittima.
Aveva atteso settimane.
E adesso lei li osservava dal patibolo. Dall'alto verso il basso.
Una folla di uomini, donne, bambini, militari e sacerdoti.
Ma i tempi cambiano.
Nessuno di loro urlava. Nessuno di loro la insultava.
Nessuno incitava il boia.
Poi lui le si avvicinò.
Un antico incubo incappucciato.
Eppure fu con delicatezza, riuscendo a mala pena a guardarla negli
occhi, che le mise il cappio al collo.
Le chiese persino se fosse troppo stretto.
Lei gli regalò un mezzo sorriso.
L'ufficiale diede l'ordine.
La botola venne aperta e il collo della donna si spezzò.
L'uomo, l'ufficiale, portò la spada all'altezza del viso salutando
con le armi una donna coraggiosa.
Un'innocente assassinata.
Nessuno parlava nella piazza.
Nessuno fece caso alla bellissima bambina bionda che piangeva in silenzio, davanti a colei che penzolava dalla forca.
La sua unica figlia, Angelica.
No, non nessuno.
Sua madre riuscì a sorriderle. A sorriderle prima di morire.


Nessuno badava alla bimba, già, ma tutti
guardavano con rispetto ciò che
era appena successo.
Perché nessuno era stato tradito.
Nessuno era stato colpito alle spalle o sventrato in battaglia per
arricchire principi e re e papi.
Una donna si era sacrificata per il bene.
Morendo fiera e senza colpe perché le persone comprendessero cosa
fosse la giustizia.
Di sua volontà. Per sua scelta.
Perché l'aveva ritenuto giusto.
Fiera e degna di rispetto persino ora che il suo corpo appeso si
era svuotato.
E da lei era nato qualcosa di diverso.
Qualcosa di potente.
Di inaspettato. Per uomini e dei.

- che cosa fai, qui, Cube?
Lo Specter voltò la testa in direzione dell'uomo che lo aveva apostrofato.
Era senza armatura e senza elmo, Cube, ma a quanto pareva era stato riconosciuto.
- e tu cosa fai qui, cavaliere del cancro?
L'altro, anche lui senza armatura, lo fissò meglio occhi, senza battere ciglio.
- ci sono sempre quando muore qualcuno.
- anche io.
Il cavaliere del cancro guardò per un istante la testa bionda della bambina.
- il boia ha fatto quello che doveva fare. Tu non lo farai.
Cube abbozzò quello che avrebbe dovuto essere un ghigno.
- rilassati. Oggi non morirà più nessuno.
- e allora perché sei qui?
Lo Specter girò sui tacchi.
- te l'ho detto, cancro, oggi non morirà più nessuno. Oggi no.
- quella bambina, Angelica, è una di noi. Ancora non lo sa, ma è per lei che...
- ci vediamo, cavaliere.
- Cube...
- ...un'altra volta, cancro.



9
FanFic / Uno strano giorno
« il: 21 Giugno, 2019, 12:03:10 pm »
Cos'è che avevano detto, gli alti comandi, a fine estate?
Ah, già.
"La guerra non durerà più di qualche settimana, sarete tutti a casa, vincitori, per natale".
Era il ventiquattro dicembre, ora imprecisata del primo pomeriggio - quindi tecnicamente non ancora natale - e il tenente Schiller era seduto nel fango.
Col culo ghiacciato, in una buca nella terra di nessuno nata da una palla di cannone.
Chissà se i suoi genitori erano le artiglierie tedesche o inglesi.
Ah, giusto, a proposito di inglesi, il tenente ne aveva per l'appunto uno davanti.
Condividevano la stessa buca, erano entrambi feriti - non gravemente ma quel tanto che bastava da muoversi con difficoltà - ed entrambi si puntavano la rispettiva pistola alla testa.
Un tedesco e un inglese in uno stallo alla messicana, pareva una barzelletta se fosse stata raccontata in un'osteria invece che nel bel mezzo di quella che i posteri avrebbero chiamato la grande guerra.
Il tenente ci aveva anche provato a fare conversazione.
Ma vuoi il fatto che nessuno dei due capiva una parola di cosa dicesse l'altro, vuoi la naturale sfiducia nei confronti di chi sta lì per ammazzarti, alla fine gli argomenti si erano esauriti presto.
Gli pareva di aver capito che l'altro si chiamava Charles...Charles qualcosa...che veniva dal Wessex, che non aveva figli - troppo giovane - e che era caporal maggiore.
Blablabla.
La pistola nella sua mano iniziava a pesare, e quel che era.peggio, la temperatura si stava sensibilmente abbassando.
Ogni tanto si sentiva il crepitio, chissà dove, di qualche mitragliatrice.
O l'abbaiare secco di un fucile.
Ma le artiglierie tacevano.
E nessun uomo urlava il suo dolore per la perdita della gambe.
O della faccia.
Si sarebbe detta una tregua.
E ai vecchi tempi sarebbero arrivati i suoi uomini a prenderlo per portarlo in infermeria, come quelli del caporale, senza rischi.
Si sarebbero salutati cordialmente e magari si sarebbero ritrovati sul campo un mese dopo.
O magari mai, o magari si sarebbero ammazzati la mattina successiva.
Ma come cristiani, perdio, non come animali che campano in mezzo a fango, ratti e merda, nelle trincee.
Dimenticando le buone maniere, dimenticando di essere uomini.
E invece stavano lì, tutti e due, sanguinanti a tremare dal freddo sperando di avere quel briciolo di energia in più per sparare quando l'altro, esausto, avrebbe lasciato cadere a terra la pistola.
Schiller pescò dalla tasca del cappotto un accendino ammaccato e una sigaretta magra.
Con fatica la portò alle labbra e la accese con una mano sola.
Sperava di scaldarsi un po'.
Il caporale lo guardava. Si vedeva che ne avrebbe fumata una con piacere ma, per giove, se la voleva doveva abbassare quella maledetta pistola.
Tentò.di farglielo capire.
Con successo, dovette ammettere.
Il risultato fu che il caporale aggiustò il tiro della sua arma.
E probabilmente dedicò a sua madre qualche colorito insulto albionico.
Al diavolo.
Schiller tirò l'ultima boccata, assaporandola come un tesoro raro.
L'ultimo raggio di sole era sparito, dei suoi.uomini non c'era traccia.
L'aria tagliava.
Chissà che stava combinando, ora, sua moglie?
Era a casa? In chiesa? Da sua madre?
Magari stava cucinando.
Forse gli stava scrivendo.
Oppure era ancora convinta della fine della guerra entro Natale ed era ad aspettarlo alla stazione.
Cara Hilde...
Vaffanculo.
Col cazzo che crepo di freddo!
Col cazzo che crepo da solo!
Ci mise tutte le sue forze, la pistola puntata alla testa del caporale.
L'inglese sbarrò gli occhi, terrorizzato, e alzò la sua.
Click fece il cane tedesco.
Clunck rispose il cane inglese.
Ciao, ciao.
Bang.
Boum.
...
Ma cosa...cosa?
Due uomini stavano in piedi davanti a loro.
Si fronteggiavano, sembrava che ciascuno dei due proteggesse uno di loro.
Quello che lo proteggeva gli dava le spalle, poteva solo vedere che era alto e biondo.
L'altro era altrettanto alto, coi capelli di un colore strano e un terrificante monociglio.
Entrambi erano infagottati in pesanti mantelli, non sembravano soldati ma che cosa avrebbero potuto essere per girare liberamente nella terra di nessuno?
E poi...oh mio Dio.
Monociglio aprì la mano. C'era la sua pallottola.
Sorrise all'uomo di fronte a lui, lasciò cadere il proiettile, poi si chinò per esaminare il caporale.
Anche il biondo si era girato verso di lui e chinato, ora poteva vederlo bene.
Era un bell'uomo, più giovane di lui.
- come stai, Helmut?
Parlava un tedesco perfetto e...
- aspetta, come sai...ci conosciamo?
L'uomo sorrise.
- ci siamo già visti. Scusa il ritardo, fammi dare un'occhiata a quella ferita.
- oh, grazie al cielo, meno male che...ehi...
Il bavero del cappotto si era abbassato e il tenente aveva visto una sorta di...di armatura sotto la lana.
Scura, poderosa. Ed era già strano.
Ma poi, vicino al collo, c'era il proiettile inglese.
Schiacciato.
Sulla carne.
Niente sangue, né urto, né penetrazione.
- non ti ha mancato. Chi sei tu? Chi...
E un gelo pungente gli stritolò la gamba, facendolo quasi svenire, bloccando il sangue sulla ferita e costringendo i lembi a...
Luce.
La ferita era scomparsa.
I due uomini erano scomparsi.
Il caporale era in piedi. Guarito. Come lui.
Si guardarono, stringevano ancora le pistole.
Lentamente, le ficcarono nei foderi.
Iniziava a nevicare.
Grandi fiocchi pesanti cadevano dal cielo.
Beh, è Natale dopo tutto.
Dovevano uscire da lì.
Ma se ci fossero stati dei cecchini?
Con prudenza, il tenente guardò oltre l'orlo della buca.
E vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.
Tedeschi e inglesi, disarmati, si stavano scambiando regali, cibo, alcol, sigarette.
C'erano candele accese, sulle trincee, e persino qualche albero di Natale.
A tanti soldati cantavano insieme e giocavano insieme a pallone.
Erano un poco stonati.
E non proprio tecnici.
Ma era bello, tanto da commuoverlo.
Anche Charles aveva visto.
E ora si guardavano.
Nuovamente.
Helmut gli allungò una sigaretta, Charles sorrise e gli strinse la mano con calore.
Auguri.
Auguri, vecchio mio.
Uscirono dalla buca, insieme.

- Ehi, Frido.
- Salve, Rhada.
- Arrivati appena in tempo, eh?
- Ma in tempo.
...
- Freschetto, vero?
- Per me no.
...
- Gran brutta guerra, vero?
- Te ne ricordi una bella?
- No ma...dai, hai capito.
- Ho capito, sì.
...
- Che farai stasera?
- Ancora non lo so.
- Gran brutta guerra, eh.
- Già.
- Già.
...
- Senti...vuoi una sigaretta?
- Non fumo.
...
- Una sorsata di whiskey? È di casa mia, roba fine.
- Non bevo.
...
- Ci sai giocare a calcio?
- Uhm?
- A pallone, come loro.
- Ah. Certo che ci so giocare.
- Ce la facciamo una partita? Con loro, dico?
- ...ma sì, è Natale.
- Germania contro Inghilterra, allora?
- Per una volta, facciamole miste, le squadre.
- Sì. Sì, mi piace

Auguri.
Auguri, vecchio mio.

N.B. Tutto ciò - presenza di saint a parte - accadde realmente, sul fronte francese, nel 1914

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Iscrizione Saint / Daje
« il: 09 Gennaio, 2019, 20:17:18 pm »
Ma sì, dopo circa un secolo, torno a giocare.
E scelgo la cloth del camaleonte.
Per la precisione, il nobiluomo veneziano Giacomo Villavecchia, chevalier de Badibarí, richiede addestramento per l'armatura del camaleonte.

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FanFic / Alcol, armature, pupe e pallottole
« il: 09 Gennaio, 2019, 18:14:12 pm »
Mi è venuta una malsana idea.
Una fanfic noir, fatta a più mani.
Chiunque può aggiungerne un pezzo.
Se qualcuno ha voglia, libero di continuarla


Faceva un freddo cane, quel giorno, ma le strade della città erano comunque piene di gente che andava e veniva, dal Queens al cuore di Manhattan.
In auto, a piedi, in bicicletta, New York non dorme mai, di giorno o di notte, sepolta dalla neve o arsa dal sole.
L'uomo, sprofondato nella sua poltrona, coi piedi poggiati sulla scrivania ingombra di polvere e scartoffie, si scaldava le chiappe accanto alla stufa, leggendo il programma delle corse.
Qualcosa doveva essere andato storto perché la sua stramaledetta stella infernale si era svegliata prima del tempo e nel posto sbagliato.
Ed era solo, Balrog.
Grazie agli dei il volstead act era stato abrogato una decina di anni prima, per cui, se non altro, il bourbon non mancava, casomai Rhadamantis lo avesse raggiunto.
Purtroppo la città, al suo arrivo, era già saldamente nelle mani di gente come Costello, Bonanno, Gambino e gentiluomini loro pari, quindi di darsi al crimine neanche a parlarne.
Sì, certo, ammazzarli tutti sarebbe stato semplice, se non fosse che gli ordini dall'alto - non marcare, Bally, e aspetta gli altri - glielo impedivano.
Attaccare il santuario da solo, del resto, era improponibile.
In qualsiasi caso doveva pur guadagnarsi da mangiare - e poi i vestiti, le auto, i portasigarette in oro gli piacevano molto, per non parlare dei jazz club - e nessuno gli impediva di usare i suoi poteri.
Un poco, dei suoi poteri.
E così adesso si faceva chiamare Johnny Savarese e faceva il detective privato.
Dicevo, quel giorno si creava di freddo ma la temperatura, nel suo ufficio, si alzò di diversi gradi quando vide una silhouette apparire bussando da dietro la porta a vetri.
Solo a vederla cosi, la pupa aveva classe.
- avanti!
E quando entrò...
Dei, quando entrò!
Sembrava Veronica Lake, per la miseria, con pelliccia, gioielli e tutto.
Lanciò via il giornale, si mise composto sulla poltrona, poi si alzò per stringerle la mano.
Lei era ancora sulla soglia.
Imprecò sottovoce, maledicendo se stesso per non essere tornato a casa dalla nottata.
I vestiti non erano freschi e non si era rasato.
Al diavolo!
- lei è mr Savarese?
- chi lo vuole sapere?
(Imbecille, c'è la targa sulla porta e pure sulla scrivania)
- posso? - disse lei estraendo una sigaretta da una scatola d'argento.
- si capisce, signora - rispose lui, accendendogliela con un dunhill d'oro.
Lei, in silenzio, tirò un paio di boccate, sbuffando volute di fumo bluastro dalle narici delicate.
Lui aspettò, ipnotizzato dalle sue labbra, andandosi a sedere dall'angolo della scrivania, proprio davanti a lei.
- mio...mio marito è sparito da una settimana, mr Savarese.
E io...io...ho paura che...
E se la ritrovò abbracciata, a piangere sulla sua spalla e a stordirlo col suo profumo.
Che fare?
Essere professionale o allungarle una pacca sul culo?
Optò per la prima, tanto più che aveva visto una Cord che...
- mi aiuti a trovarlo, la prego. Sono una donna ricca, posso...
- freni, signora. Cominci dal principio.
Venne fuori una storia che pareva uscita da un film.
Lui, il marito, faceva il produttore a Broadway e un bel giorno si era presentato un tale offrendogli un po' di verdoni per entrare in società.
E un po' di pallettoni in caso di rifiuto.
Il marito aveva chiamato la sicurezza - era Broadway quella, cazzo, non quello schifo che era diventata Hollywood grazie a Siegel - e lo aveva cacciato.
La settimana dopo era scomparso.
Fine della storia. Niente nomi, niente facce, niente di niente.
- ok, dolcezza. Le cose stanno così. Io costo mille dollari, sono il migliore. Due giorni e il maritino torna a casa.
Ricacciando indietro le lacrime, Veronica lo ringraziò mille volte, gli firmò un assegno sulla fiducia, lo ringraziò ancora e uscì dall'ufficio sculettando, lasciando una vaga scia di chanel.
Balrog si mise il soprabito e si buttò in downtown.
Scoperchiò diversi bidoni di immondizia, riscosse vecchi crediti e contrasse nuovi debiti coi suoi informatori.
Gli serviva solo un nome. O una faccia.
E a quel punto era fatta, avrebbe letto il nome del tizio che cercava sul suo registro e lo avrebbe pizzicato ovunque fosse.
Ma niente.
Un accidente di niente. Un fantasma.
Sì, beh, magari non proprio un fantasma ma...oh, al diavolo.
Incazzato nero, tornò in ufficio.
Gli serviva un goccio, per pensare.
Ma poi...

12
FanFic / Auguri, fenice.
« il: 02 Gennaio, 2019, 13:27:58 pm »
E dopo non so quanto anni, torno.
Scusate se la qualità è scesa ma è una vita che non scrivo più.

Dieci minuti alla mezzanotte.
Il salone ovale delle feste era pieno.
Camerieri in giacca bianca e guanti andavano e venivano riempiendo coppe e bicchieri.
Le persone sedute ai tavoli chiacchieravano scambiandosi auguri.
Qualche coppia ballava, al centro della sala, sulle note dell'orchestra - abiti da sera, calze velate, tacchi alti, gioielli - altri lanciavano coriandoli, ridendo.
Uno di loro, però, non rideva.
Fumava il suo havana in silenzio, il viso in ombra a dispetto delle luci colorate che rallegravano la sala.
Un cameriere, sbucato chissà da dove, gli riempí il bicchiere.
Dom perignon, solo il meglio per gli ospiti.
Lui preferiva il taittinger, ma che importava, organizzazione di merda.
Beh, pazienza.
L'uomo in smoking spense il sigaro in un pacchiano portacenere smaltato, si alzò dal tavolo - ne aveva abbastanza e la voglia di ridere era finita anni prima - col bicchiere di champagne in mano, per andare a pisciare.
Gli altri nemmeno se ne accorsero, continuavano a ridere e scherzare come i vecchi idioti che erano, ridicole mummie ubriache con cappelli di carta in testa e trombette in bocca.
Aveva sessant'anni, l'uomo, pochi e grigi capelli in testa e un giro vita non proprio invidiabile.
Ma si vedeva che era stato, che era ancora vigoroso.
E il suo vestito era di ottimo taglio, i diamanti che scintillavano sulla spilla e sui gemelli erano purissimi.
Camminando lungo il corridoio che dal salone portava ai bagni non fece troppo caso agli ubriachi che brindavano alla sua salute né a quelle due ragazze che gli sorridevano in abiti succinti.
Quanto ai quadri, erano gli stessi da anni.
Belli, sì, ma anche la bellezza può stancare con l'andar del tempo.
Entrò nel bagno, posò a terra il bicchiere, se lo tirò fuori e scaricò un getto giallastro.
Canticchiava un vecchio motivetto, stonato, più per coprire il rumore della pisciata che per se stesso.
Qualcuno - non ricordava il suo nome - gli sussurrò qualcosa all'orecchio.
Pochi minuti al brindisi, ancora, non poteva mancare, gli ospiti aspettavano blablabla.
- arrivo.
L'altro annuí, poi tornò sui suoi passi vacillando un poco.
Finalmente fuori dai piedi
Qualche goccia di piscio finí nel bicchiere.
L'uomo si scrollò l'uccello, lo rimise nelle.mutande, raccolse il bicchiere e lo avvicinò alla bocca.
Poi sogghignò e lo lasciò cadere a terra, uscendo.
Mi avevate preso per un idiota?
Non tornò nel salone, ma proseguí lungo il corridoio, verso la porta che dava accesso al tetto.
Salì le scale, aprí una porta di metallo e si ritrovò in terrazza.
Sotto di lui la città era in attesa dell'anno nuovo.
Se ne percepiva quasi la tensione, il silenzio prima del balzo, prima di illuminarsi a giorno per i fuochi.
Prima, eh sì, che si sentissero le sirene delle ambulanze e della polizia.
Sul cornicione del trentesimo piano, la notte davanti a lui divenne giorno.
E ricordò, come ogni anno.
E come ogni anno vide se stesso, giovane, con la sua armatura che pareva di fuoco liquido.
Eh, che tempi erano quelli!
Si vide tornare sulla terra, dentro una bolla, insieme ai suoi amici e compagni.
Ricordò che non voleva tornare, non voleva lasciare da soli il Pegaso e la dea.
Non voleva lasciarli morire, ma non aveva scelta, nessuno aveva ascoltato le sue proteste.
E così era tornato sulla terra, dopo gli altri.
E aveva visto i suoi amici, i suoi compagni al suolo, feriti o morti.
Marin e Shaina, con le maschere spezzate.
E i bronzelli falliti - li chiamava così, a quei tempi - schiantati.
Perché lì la guerra non era finita.
Era stata grande la sua ira, e per lui era stato facile recuperare le energie.
Li aveva uccisi, i suoi nemici, arsi vivi in un unico, fiammeggiante, battito di ali.
E quando aveva rialzato la testa, quando le energie erano finite, dietro le colline di Atene non c'era più nessuno.
Il nemico era distrutto, in fuga, per non tornare mai più.
Ma era costato caro.
Dragone e cigno erano morti, presi alle spalle come non meritavano.
Suo fratello respirava ancora, sputando sangue lo guardava negli occhi.
Quel giorno si salvò, per morire di cancro dieci anni dopo, intubato, povera cosa di nemmeno trenta chili.
Poi erano arrivati Pegaso e la dea.
Lui era un vegetale, e da quanto ne sapeva tale era rimasto, chissà in quale ospedale.
La dea se n'era andata, la guerra era finita, non serviva più che restasse in questo mondo.
Perché questo è il mondo degli uomini, no?
Già...
Era rimasto solo.
Di tutto aveva voglia tranne che di mettersi a ricostruire, a cercare altri come lui, ad addestrarli.
Magari avrebbe dovuto farlo, ma che cazzo volevano da lui?
In questo mestiere - che nemmeno si era scelto - non esisteva previdenza sociale.
Aveva preso il primo aereo, per Charles de Gaulle.
Per un poco aveva lavorato per il governo.
In fondo perché no, si era detto, era quanto più somigliava ad un supereroe.
E se c'è una cosa che a questo mondo non manca è la guerra.
Ma si era stancato presto.
Aveva combattuto per un ideale, ora uccideva per denaro.
Il denaro di qualcun altro.
Erano venuti gli incubi. E la vodka non li aveva cacciati.
Come non lo aveva fatto la coca.
Allora si era messo in proprio.
In sordina, per non farsi trovare.
Almeno all'inizio.
Ma poi che cosa sarebbe mai successo se lo avessero trovato?
Che risate immaginarsi un'irruzione dei flic, con le armi e tutto.
C'era da scompisciarsi. E allora...
Rapine.
Estorsioni.
Omicidi.
Per sé, stavolta.
Era diventato potente.
E ricco, molto ricco.
Pochi anni, a dire il vero.
Pochi anni per fare quello che fanno tutti, darsi al crimine e sperare di durare quel tanto che basta per tornare nella legalità.
E ora, infatti, aveva una ferrari - tre, in effetti - un attico, una villa al mare, una in montagna, una scuderia - i cavalli da corsa gli erano sempre piaciuti - e diverse partecipazioni in svariate aziende.
Ma era rimasto l'ultimo.
Meno dieci...
Si era dannato per noia, per male di vivere.
...nove...
Aveva tante cose, e tutte lo annoiavano. Solo.
...otto...
Dov'erano gli amici di un tempo?
...sette...
Dov'era la grande impresa, ora che nessuno era rimasto per ricordarla?
...sei...
Dalla tasca della giacca estrasse una pistola. Gli piacevano quelle a tamburo.
...cinque...
Alzò il cane.
...quattro...
Si ficcò la canna in bocca.
...tre...
Bang.
...due...
Il suo corpo cadde dal cornicione.
...uno...
Con fragore, atterrò sul cofano di una maserati parcheggiata.
Ma nessuno se ne accorse, perché i botti, le luci e gli allegri auguri coprirono il rumore.
Buon anno a tutti. Buon anno, fenice!
E poi si alzò, si  riaggiustò camicia e papillon.
Niente macchie di sangue.
Fottuta fenice che risorge dalle ceneri.
Come ogni, maledetto, primo gennaio.

13
FanFic / akrepi i maleve - lo scorpione delle montagne
« il: 03 Settembre, 2012, 14:34:21 pm »
e rieccomi - non ne potete più neh? - come promesso con una fanfic western.
vi dirò da subito che è qualcosa di moooolto sperimentale, forse al limite della fanfic cavalleresca ma tant'è...ci ho provato.
a parte tutto, spero vi piaccia, e spero gradirete i vari riferimenti agli spaghetti western e al cinema di Milcho Manchevski.

:ya: godetevi sangue e budella

Spoiler
Il cancello del paese gemette su cardini arrugginiti quando il
sergente Rauf lo oltrepassò seguito dai suoi uomini, uscendo al
piccolo trotto dalla nebbia che copriva ogni cosa.
Lui compreso, erano venti, venti cavalleggeri turchi di stanza in
Albania le cui montagne, in quel periodo dell'anno, erano
flagellate dalla pioggia.
E infatti, la pioggia veniva giù decisa da più di una settimana
inzuppandoli fino alle ossa, rendendo il suolo un viscido pantano
che insozzava coi suoi schizzi uniformi, armi e finimenti.
E risucchiava fin oltre i garretti le zampe dei cavalli, di venti
cavalli, e le gambe di un uomo.
L'avevano preso due giorni e mezzo prima, sulle montagne, al
confine con la Grecia.
Legato al pomo della sella del sergente, il prigioniero tentava di
stare al passo arrancando su gambe malferme.
Ricoperto sino ai capelli di fango, sangue e merda di cavallo, il
viso dell'uomo era irriconoscibile.
Poteva avere vent'anni, come settanta.
Di tanto in tanto, esausto, crollava a terra pesantemente e veniva
trascinato, lasciando per terra solchi profondi, afferrandosi
stretto alla corda per non farsi scorticare mentre i cavalli
scartavano per evitarlo.
E i cavalieri lo ricoprivano di insulti.
In questi casi il sergente ordinava l'alt per permettergli di
rialzarsi e riposarsi quel tanto che bastava per ricominciare a
correre dietro i cavalli.
Il Maggiore lo voleva vivo.
Rauf e i suoi imboccarono la via principale del paese che sembrava
esser stato colpito dalla guerra.
E spopolato dalla peste.
Molte case mancavano di parte del tetto, altre invece avevano muri
bruciati con finestre sconquassate e sbarrate.
Il vento faceva scricchiolare il legno degli edifici, fischiava
forte fra le lapidi e le croci storte del cimitero cristiano.
Qualcuno socchiuse gli scuri per vedere chi fosse entrato in paese
ma li richiusero di scatto dopo aver riconosciuto il sergente.
La campana della vecchia chiesa diroccata suonò a morto.
Un'aria malsana gravava su tutta la zona.

I cavalleggeri sbucarono nella piazza, oltrepassando un
improvvisato steccato guardato a vista da un pugno di giannizzeri
negligenti e trasandati.
Dentro, gli abitanti del paese si ammassavano tremando sotto la
pioggia, si abbracciavano, piangevano.
Famiglie, donne, bambini dagli sguardi atterriti.
Solo ai più anziani era stato permesso di restare nelle loro case.
Tanto, lasciati a loro stessi, sarebbero crepati comunque di
freddo e di stenti.
Rauf e i suoi uomini legarono i cavalli di fronte alla locanda.
Le gambe del prigioniero si ritrovarono improvvisamente ferme e
non riuscirono più a reggerlo in piedi.
L'uomo crollò pesantemente al suolo, di faccia, con una specie di
fiacca piroetta.
Altri schizzi di fango insozzarono le selle.
Due cavalleggeri lo sollevarono per le ascelle trascinandolo nella
sala principale della locanda.
Le mezze porte d'ingresso sbatacchiarono.
Tutti i soldati turchi presenti nella sala scattarono in piedi
dalle sedie e, afferrate le armi, le puntarono all'unisono contro
il prigioniero.
- Ah, il mio ospite è arrivato.
Il Maggiore era sprofondato in una vecchia e comoda poltrona, ad
occhi chiusi, completamente assorto nel mescolare con un
cucchiaino d'argento lo zucchero nel suo the.
Il barbiere del paese stava dando gli ultimi ritocchi ai baffi,
lavorandoli a punta, mentre il proprietario della locanda portava
un carrellino con la colazione.
Panini, dolcetti, frutta fresca.
Un modo come un altro per tentare di salvarsi la pelle.
Poco distante un servitore spazzolava la giacca della sua divisa,
un altro, in ginocchio, gli lucidava gli stivali.
Completava il quadro un gruppetto di tintinnanti sgualdrine
pesantemente truccate che nascondevano la loro paura ridacchiano
sguaiate e pronunciando oscenità a mezza bocca.
Tutti i soldati se le erano passate almeno una volta.
Come il paese, anche il locale era terribilmente squallido.
La maggior parte delle sedie – quelle non occupate dai soldati -
era mangiata dalle tarme e traballava, la tappezzeria ammuffita si
staccava in più punti.
Le tende di broccato viola del palco erano ricoperte di ragnatele,
gli specchi erano lerci.
Una roulette, abbandonata, marciva ogni giorno di più sotto un
panno.
L'orologio a pendolo rintoccò.
- Portatelo qui, sergente Rauf.
L'uomo, ancora legato, fu trascinato davanti al Maggiore.
Da che era stato catturato non aveva dormito né mangiato, ma
solamente corso.
Privo di energie, cadde in ginocchio.
Il Maggiore prese un piccolo sorso di the.
Ancora troppo poco dolce.
- È completamente coperto di fango. Può essere chiunque.
Un soldato afferrò da terra un secchio pieno d'acqua – il
proprietario della locanda ci aveva appena lavato il pavimento -
rovesciandolo addosso al prigioniero.
Tutti i turchi scoppiarono a ridere fragorosamente.
Persino il Maggiore sogghignò mentre aggiungeva al the un'altra
zolletta di zucchero.
Il riso gli morì sulle labbra quando si accorse che qualche goccia
di fango liquido aveva macchiato la sua immacolata camicia.
Tutti i soldati si zittirono di colpo.
Il Maggiore, rosso in volto, posò sul tavolo la tazzina poi si
alzò dalla poltrona.
Lentamente si avvicinò al tremante cavalleggero che aveva ancora
in mano il secchio vuoto.
L'uomo scattò sull'attenti.
Il Maggiore, ritto di fronte a lui, gli piazzò gli occhi negli
occhi poi estrasse la pistola dalla fondina abbattendone il calcio
sulla sua tempia.
Il soldato crollò pesantemente sugli assi di legno del salone.
Il Maggiore, non ancora soddisfatto, gli puntò contro la pistola.
Il soldato, tenendosi la tempia sanguinante con la mano, sbiancò.
Il Maggiore alzò il cane.
Il soldato, muovendo le labbra in una muta preghiera, si pisciò
nei calzoni.
Il resto della truppa iniziò a ridacchiare.
Il Maggiore scoppiò a ridere.
Disarmò il cane, rifoderò la pistola, tornò a sedersi in poltrona
accompagnato dalle risate dei suoi uomini.
Il soldato fu discretamente portato via da due commilitoni.
Il Maggiore soffiò sulla tazzina da the per raffreddarne il
contenuto, poi ne prese una piccola sorsata chiudendo gli occhi
per meglio serbarne il sapore.
- Ne gradiresti una tazza?
Il prigioniero alzò il viso in direzione del Maggiore, fissandolo
con l'unico occhio che ancora s'apriva.
- È davvero delizioso sai?
Il Maggiore batté violentemente il palmo della mano sul bracciolo
della poltrona, come se fosse stato folgorato da un'idea geniale.
Col mento indicò il carrellino dei rinfreschi.
- Ah, ma forse hai fame...serviti, serviti pure. Vuoi un panino?
Magari una gelatina?
Il prigioniero non disse una parola.
- Sergente Rauf.
- Agli ordini maggiore.
- Questo...questo cane che mi hai portato...parla la nostra
lingua?
Il sergente, imbarazzato, guardò i suoi uomini.
- Non...non lo so signore. Da che l'abbiamo preso non ha aperto
bocca.
Il Maggiore proseguì.
- Beh, spero che la capisca, perché io non parlo la sua lingua
barbara.
Ancora una volta l'uomo non aprì bocca.
Il Maggiore srotolò un manifesto ingiallito. Tratteggiato a
carboncino, il viso del prigioniero – senza fango né ferite –
campeggiava sulla carta.
Quindicimila ducati d'oro, vivo o morto.
- Sai leggere animale? LO vedi cosa dice qui? Sono molti soldi...a
sufficienza per vivere una splendida vita.
Il Maggiore arrotolò nuovamente il manifesto.
Il prezioso anello che portava alla sinistra scintillò d'oro e
smalti.
- Ma vedi, a me del denaro non importa nulla. Tu, da troppo tempo,
insulti il Sultano, il mio signore, e di conseguenza...anche me.
Il Maggiore terminò di bere il suo the.
Poi si alzò.
Uno dei suoi uomini lo aiutò ad indossare la giacca, chiudendola e
lucidando di volta in volta i bottoni che non gli sembravano
perfettamente splendenti.
- E con te, anche questo paese di vermi che ti ha ospitato e
nascosto.
Il padrone della locanda e il barbiere impallidirono.
- E adesso risolveremo la cosa una volta per tutte. Faremo di voi
un esempio.
Il prigioniero, furioso, sputò verso il Maggiore imbrattandogli
uno stivale lucido.
Il comandante sogghignò poi, con lo stesso piede, sferrò un
violento calcio al viso dell'uomo.
[close]

Spoiler
Martellati dalla pioggia, nella piazza, gli abitanti del paese
scavavano nel fango, sotto il tiro dei fucili.
Insieme a loro, con le vanghe in mano, c'erano il proprietario
della locanda, il barbiere e le puttane.
Irriconoscibili, tutti uguali, scomparivano nella terra fino alle
spalle.
I più bassi erano già scomparsi alla vista.
Riparato da una grande tenda da campo verde, il Maggiore si godeva
lo spettacolo sorridendo.
Si era cambiato la camicia e un soldato, poco distante, stava
lavando quella macchiata.
Il prigioniero, legato, stava a non più di due passi da lui, in
ginocchio.
Nemmeno ricordava da quanto tempo non si cambiava d'abito.
I soldati, a cavallo o a piedi, si inzuppavano immobili.
- Basta così.
Un lampo di magnesio illuminò il pomeriggio scuro, immortalando su
una lastra gli uomini, le donne, la buca.
Il Maggiore fece un cenno.
Una vecchia mitragliatrice Nordenfelt crepitò sputacchiando
pallottole verso la buca.
I soldati aprirono il fuoco coi fucili.
Una grandinata di piombo corazzato investì gli abitanti del paese.
Acqua, metallo rovente, fango, sangue, orina, feci, lacrime e urla
salirono fino al cielo.
E con loro la risata sguaiata del Maggiore.
Il prigioniero, sconvolto, si alzò ruggendo maledizioni.
Una bastonata si abbatté con violenza sulla sua schiena,
ributtandolo in ginocchio mentre altri soldati lo colpivano con
calci e pugni.
Il Maggiore smise di interessarsene.
- Granate.
Piccole esplosioni risuonarono nella buca in successione, facendo
a pezzi corpi già straziati, uomini già morti, mescolando la loro
carne bruciacchiata alla terra e al fumo.
- Cessate il fuoco.
Il Maggiore si alzò in piedi.
- Portateli qui.
Terrorizzati, scortati da un gruppetto di soldati con le armi
spianate, gli ultimi abitanti del paese rimasti in vita
camminavano verso di lui.
Il becchino. Il prete. Il campanaro.
- Credo ci sia del lavoro per voi. Ripulite questo schifo.
Poi il Maggiore sollevò il prigioniero prendendolo per i capelli.
L'uomo sanguinava dal naso, dalla bocca, dal cuoio capelluto e da
tante altre ferite inflitte dal pestaggio.
- Adesso, tocca a te. Sergente Rauf.
Due soldati immobilizzarono il prigioniero.
Il sergente alzò il fucile, poi ne abbatté violentemente il calcio
sulla mano destra dell'uomo spezzandone le ossa.
Il prigioniero urlò.
Rauf, allo stesso modo, gli spaccò l'altra mano.
Il Maggiore montò a cavallo.
- In giro dicono di te che combatti per la libertà. Che sei un
eroe, una leggenda delle montagne. Per me sei solo un insetto da
schiacciare. Un bandito. E un bandito è inutile se non può usare
le armi.
Il Maggiore spronò il cavallo che calpestò le mani fratturate del
prigioniero.
Gli altri cavalleggeri, montati in sella, imitarono il loro
comandante schiacciando il corpo del prigioniero sotto gli zoccoli
ferrati delle loro bestie.
- Preparatevi. Ce ne andiamo.
I soldati cominciarono a smontare la tenda e a caricare le loro
cose sui carri.
Il Maggiore indicò con l'indice due fanti.
- Tu...e tu. Portatelo qui.
I due sollevarono la massa di carne sanguinante che era il
prigioniero.
Respirava ancora.
- Buttatelo nel pozzo. Se è una leggenda come dicono sopravviverà.
I due uomini obbedirono al comandante.
Il prigioniero cadde, sprofondando nell'acqua fredda colorandola
di rosso.
- Colonna in marcia.
Il prete benedisse piangendo la fossa comune, il becchino tentava
di dare un ordine alle povere cose che erano i cadaveri dei
paesani.
La campana, nuovamente, suonò a morto salutando con sollievo
l'uscita dei soldati dal paese.
Pioveva forte, solo per questo le case vennero risparmiate dalle
fiamme.

Il prigioniero, moribondo, sanguinava nell'acqua.
Fiaccato dal viaggio, distrutto nel corpo, galleggiava a testa in
giù aspettando la fine.
Quasi non sentiva più il dolore, né il freddo, né le gocce di
pioggia che gli tamburellavano sulla schiena.
Davanti ai suoi occhi vedeva solamente il nero dell'acqua, le
gocce del suo sangue che ci affondavano scomparendo sul fondo.
Chiuse gli occhi.
Qualche istante di vita ancora.
Poi qualcosa che veniva dal fondo del pozzo, una luce dorata, lo
investì.
[close]

Spoiler
Tre giorni dopo, i soldati marciavano sotto la pioggia, Rauf e il
Maggiore cavalcavano davanti a tutti.
Dopo venivano i cavalleggeri, i fanti in fila per quattro e un
paio di carri delle salmerie.
Scarpe, zoccoli e ruote risuonarono sull'acciottolato di un
antico, lungo ponte di pietra.
Forse l'avevano costruito i romani.
Alcune sacche di canapa grezza ballavano sulle groppe degli
animali.
Piene di teste di ribelli.
Il sangue vecchio, coagulato, trasudava dal tessuto annerendolo.
Qualche miglio più avanti il sentiero avrebbe condotto la colonna
ad un paese.
Lì si sarebbero fermati per la notte.
Un uomo, sotto la pioggia, era seduto su una pietra poco distante
dal ponte, con un piede appoggiato ad una specie di scatola di
legno.
Era molto difficile distinguerlo bene.
Le falde del cappello, appesantite dall'acqua, coprivano il suo
viso sino al naso.
Solo la bocca e il mento erano illuminati dal braciere del sigaro.
L'informe poncho che indossava, poi, non lasciava capire se fosse
magro, grasso o robusto.
Si vedeva solo che era alto.
E armato.
Il suo cavallo brucava tranquillo, poco distante.
L'uomo alzò lo sguardo.
Vide chiaramente il Maggiore avanzare, e il Maggiore vide lui.
Col piede schiacciò una leva di metallo che scomparve all'interno
della scatola.
Un detonatore.
Il Maggiore, dietro le sue spalle, udì uno rombo, seguito da uno
schianto violento.
Il centro del ponte si sollevò in aria proiettando pietre, cavalli
e uomini urlanti in aria, straziandoli.
Il risucchio dell'esplosione investì i pochi che avevano superato
il ponte, sbattendoli con violenza faccia a terra, giù dai cavalli
terrorizzati che scalciavano e nitrivano.
Poi il ponte ricadde.
Insieme all'acqua, vennero giù dal cielo schegge infuocate di
legno, di pietra, di carne avvolta in brandelli di uniforme.
E nuvole nere di fumo sulfureo.
La colonna era sparita, non esisteva più.
L'uomo avanzò verso i sopravvissuti.
- Aprite il fuoco, ammazzate quel bastardo.
Una scarica di fucileria colpì in pieno l'uomo, al petto,
sbattendolo a terra.
Il Maggiore lo guardò cadere, poi si voltò verso il ponte.
Tutti morti.
- Maggiore.
Il comandante voltò la testa.
L'uomo si era rialzato, e avanzava.
- Cosa fate idioti? Sparate, uccidetelo.
Ancora una volta i fucili crepitarono.
Ancora una volta l'uomo cadde a terra per poi rialzarsi e
continuare ad avanzare.
Il Maggiore sudava.
- Maggiore, i tuoi uomini non sanno sparare. Provaci tu o non mi
fermeranno.
Il Maggiore estrasse dalla fondina la pistola d'ordinanza e fece
fuoco.
Una, due, tre detonazioni.
L'uomo cadde ancora.
Stavolta l'aveva colpito.
Doveva averlo colpito.
Ma l'uomo s'era rialzato e continuava ad avanzare.
- Cosa succede Maggiore? Ti trema la mano?
Quattro, cinque, sei detonazioni.
Al cuore, al cuore aveva mirato.
L'uomo era ancora vivo.
Il cane risuonò a vuoto, una, due, tre volte.
L'uomo si fermò.
Lentamente, si tolse il cappello.
Il suo viso appariva giovane, sereno quasi, eppure tirato.
Ma sincero.
Era il viso del prigioniero.
- Tu...tu...
Con la stessa lentezza alzò una falda del poncho.
E sul petto portava un'armatura.
Una corazza dorata.
I soldati rimasero impietriti, a bocca aperta.
- Ti piace? A quanto pare è stato il mio sangue a tirarla fuori
dall'acqua. Il sangue di un eroe...come dicono in giro. Parole
tue. E lei mi ha guarito.
L'uomo alzò una mano, la sinistra.
Era fasciata, le dita bluastre e tumefatte.
- Guarito quasi del tutto. Qualche passo indietro.
I soldati arretrarono.
- Hai visto maggiore...hai visto che parlo la tua lingua?
L'uomo avvicinò la mano destra alla fondina.
Cinque soldati caddero morti con un buco in fronte.
Il Maggiore non aveva nemmeno visto la pistola lasciare la
fondina, non aveva sentito gli spari.
Non era nemmeno riuscito a muoversi e ora guardava senza capire i
cadaveri dei suoi uomini.
E anche quella mano era fasciata.
- Maggiore.
I due uomini si fissarono.
- Raccogli un fucile, carica e spara.
Il Maggiore si chinò, lentamente, sino a toccare il calcio del
fucile.
Un bruciore tremendo lo fece urlare come un maiale.
L'uomo non si era mosso...no...non si era mosso.
Ma un piccolo foro scarlatto passava da parte a parte la sua mano.
- Raccogli il fucile, bastardo.
Altre due ferite rosse si aprirono sul suo corpo, e poi altre due.
Il Maggiore crollò a terra, squassato dal dolore con la bava alla
bocca.
La sua uniforme, adesso, era incrostata di fango e polvere.
E del sangue dei suoi uomini.
- Raccogli il fucile.
Il Maggiore annaspò tentando di afferrare l'arma da terra.
I suoi occhi stavano diventando ciechi.
L'uomo si avvicinò.
L'unghia dell'indice era un artiglio di porpora.
Lentamente, metodicamente, altri buchi si aprirono sul corpo del
Maggiore.
Altro sangue uscì da lui.
- Una...due...tre...quattro...cinque...sei...sette...otto.
Il corpo del Maggiore era scosso da tremiti violenti.
I tendini delle gambe e delle braccia, tesi al massimo, si
spezzarono con uno schiocco mentre le mascelle, strette con forza,
fecero saltare alcuni denti.
La febbre lo stava divorando.
L'uomo lo colpì ancora.
Due, tre, quattro volte.
La schiena del Maggiore si contorse scricchiolando.
- Fa male maggiore?
Il Maggiore gorgogliò sputando sangue misto a bile acida.
Il suo intestino e la sua vescica si svuotarono.
Ma lui non se ne accorse, tutti i suoi sensi se n'erano andati.
Il dolore però rimaneva.
L'uomo colpì ancora una volta, poi un'altra.
Il corpo del Maggiore si gonfiò.
Sangue nero e avvelenato, sudore gelido e maleodorante, organi
interni spappolati e liquefatti iniziarono a fuoriuscire dai suoi
orifizi.
A trasudare dai pori della pelle.
Il cuore martellava violento e sincopato, i polmoni si erano
ripiegati su loro stessi.
- Quattordici...quattordici colpi Maggiore.
- U...uccidimi...uccidimi.
L'uomo si avvicinò a lui, frugando nella sua uniforme.
Ritirò la mano stringendo un manifestino arrotolato, sporco di
sangue.
- Florian Vulianovic...Akrepi i Maleve, lo Scorpione delle
Montagne...quindicimila ducati d'oro, vivo o morto.
Vedi, so anche leggere.
Cosa dici maggiore...sono vivo o morto?
- U...uccidimi...per favore...uccidimi.
- Sono molti soldi...a sufficienza per vivere una splendida vita.
Non ti ricordi maggiore?
- U...uccidimi...ti prego...
L'uomo montò su un cavallo e si allontanò.
- U...uccidimi...

Sentieri come quello, in montagna, sono poco battuti.
Possono passare settimane prima che qualcuno li percorra.
Il Maggiore ci mise un giorno intero a morire.
E al termine di quel giorno, nemmeno la madre l'avrebbe
riconosciuto.
[close]

14
FanFic / domitianeide
« il: 24 Agosto, 2012, 20:33:58 pm »
e rieccomi, come avevo promesso, con la mia nuova fanfic :ya:

lo so che alcuni storceranno il naso pensando a una fanfic di fantascienza ma vi chiedo, per favore, di leggerla tutta prima di giudicarla :sisi:

se la troverete senza alcun senso logico...beh ditelo così come se vi piacerà

Primo Atto

Spoiler
Accelerando ad oltre settanta G, l'armata spaziale partita da
Nuova Roma uscì dall'irrazionalità all'altezza di Plutone.
Col Sole a prua e il sub-spazio alle spalle, preceduta dagli
intercettori, la corazzata galattica “Scipio” avanzava al centro
della formazione circondata dagli incrociatori pesanti, dalle
cacciatorpediniere e dalle fregate, più agili, che ne proteggevano
i fianchi.
Subito dopo avanzavano le più grandi e goffe portaerei mentre le
navi appoggio chiudevano la formazione.
La flotta scese verso il piano dell'eclittica, puntando
decisamente in direzione del sistema Terra-Luna, roccaforte dei
ribelli.
La volontà dell'Imperatore, il Divino Lucio Domizio Enobarbo
Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, era precisa.
Genocidio.

Sugli schermi TriV di plancia della “Scipio” cominciò a delinearsi
lo schieramento nemico che, da Giove, convergeva a ventaglio verso
gli Imperiali.
Circondato dagli ufficiali del suo stato maggiore, dagli apparati
di controllo automatici e da decine di schiavi personali, il
comandante Lucio Rufo Clodio era seduto in poltrona al posto di
comando.
Eccoli...eccoli lì.
Il luogotenente - il Tribuno Elio Fabio Nerva - ritto in piedi
davanti al monitor principale, fece per parlare ma fu interrotto
dall'impersonale voce dell'elaboratore centrale della nave.
- Ordini comandante?
- Ingrandire.
Il computer trasmise l'ordine agli intercettori e, un istante
dopo, l'immagine proiettata sul monitor offrì una nitida vista
della forza d'assalto terrestre.
Clodio grugnì il suo disprezzo.
Davanti ai suoi occhi una flotta caotica ed eterogenea, messa
insieme con navi da diporto e da carico catturate all'Impero e
armate in maniera raffazzonata.
Vecchi catorci superati.
Eppure appariva poderosa.
E agguerrita.
Cinque anni prima, esasperati dalla pressione fiscale e
dall'inettitudine del corrotto Pretore Ezio Calpurnio Bibulo, i
terrestri avevano dato via all'insurrezione.
Durante i disordini che seguirono, tutti i magistrati Imperiali –
compreso lo stesso Bibulo - furono eliminati e sostituiti da un
governo provvisorio, nominalmente filo Imperiale.
La popolazione terrestre – come sempre accade in questi casi -
preferì ignorare e dimenticare le atrocità compiute contro i
burocrati imperiali non appena ottenuta l'indipendenza.
E in fin dei conti, l'Imperatore stesso sembrava ignorarle.
Via via che le loro forze si consolidavano, i terrestri avevano
evitato il confronto diretto con gli Imperiali che, del resto,
erano occupati su diversi altri fronti.
Quando però il premier terrestre Johann Merkel aveva proclamato
l'autonomia - il sistema solare non era più “Caelum Nostrum” -
l'Imperatore era stato costretto ad ordinare l'attacco.
Clodio prese con calma una sigaretta dall'astuccio d'oro.
Uno schiavo si precipitò ad accenderla, un altro gli porse una
coppa di falerno ghiacciato.
Il comandante lo sorseggiò poi, soddisfatto, congedò i due uomini
con un cenno secco.
- Computer.
- Sì comandante.
- Tempo di contatto stimato?
- Due minuti comandante. La flotta è attiva e pronta al
combattimento.
- Ordine per tutte le unità. Formazione a cuneo. Ritmo di
battaglia. Spazziamo via questi cani sediziosi.
I motori della “Scipio” aumentarono la spinta mentre i portelli
delle portaerei si spalancarono vomitando nello spazio stormi su
stormi di caccia stellari “Callidus”.
Le salve delle batterie protoniche tagliarono il nero dello
spazio.

Il Capo di Stato Maggiore terrestre, Pierre Gustave de
Beauregarde, fissava lo schermo TriV dalla plancia del forte
orbitale Mukran.
L'attesa, fino a quel momento, era stata intollerabile ma ora gli
Imperiali erano arrivati.
Beauregarde si concentrò.
I puntini verdi – i terrestri – soverchiavano quelli gialli – gli
Imperiali – di tre a uno.
Ma le navi di Nuova Roma erano tecnologicamente più avanzate,
unità automatiche armate pesantemente.
Beauregarde strinse il pugno con forza.
Ci siamo.
- Monsieur de Bouganville, trasmettere a tutte le navi.
Fuoco di fila, due bordate.
- Oui mon general.

Una grandinata di lampi si abbatté sugli schermi protettivi di
entrambe le flotte facendoli crepitare.
Poi gli scudi si abbassarono per lasciare partire una seconda
bordata.
I “Callidus” Imperiali – comandati a distanza dalla “Scipio” -
accelerarono puntando ai fianchi della flotta terrestre.
Appena giunse a tiro, la prima ondata spazzò le linee ribelli col
fuoco dei disintegratori.
Gli schermi avvamparono intercettando le scariche di energia, poi
si spensero per rispondere il fuoco.
Una seconda salva dei caccia colpì a difese abbassate.
Diverse grandi unità da carico esplosero.

L'uomo più potente del pianeta Terra e giurato nemico
dell'Imperatore, il premier Johann Merkel, sedeva di fronte al
proiettore TriV bidirezionale.
Era collegato con Forte Mukran praticamente in tempo reale e
assisteva a quello stava accadendo come fosse effettivamente
presente.
Gli altri ministri planetari erano accanto a lui, al loro posto.
Le loro voci si accavallavano.
- Quanti sono generale?
- Non sarebbe preferibile un'azione di contenimento?
- Siamo sicuri che non sia ancora possibile una trattativa?
- Il fianco destro, il fianco destro Imperiale è più debole,
visibilmente più debole.
- Generale, generale...
Beauregarde era molto vicino a perdere la pazienza.
Per quale motivo i politici insistevano a metter becco in
questioni militari?
Nessuno di quei signori, da che ne sapeva, era mai salito su
un'astronave.
Figurarsi partecipare ad un'azione di guerra.
Il Capo di Stato Maggiore respirò due volte, poi parlò.
- Signor Primo Ministro, signori...vi prego di perdonare la mia
franchezza ma mi trovo costretto a chiudere il collegamento.
La battaglia necessita di tutta la mia attenzione.
Le proteste del governo terrestre si persero nell'etere.
Pierre Gustave de Beauregarde spostò nuovamente la sua attenzione
sullo schermo TriV.
La trappola era scattata.

Nell'infuriare della battaglia, la “Scipio” si lanciò in mezzo
allo schieramento terrestre speronando un grosso vascello da
crociera poi le salve dei cannoni gravitazionali avvolsero un
cargo atomizzandone la parte poppiera.
Lucio Rufo Clodio, in plancia, rise con ferocia.
Poi fece cenno ad uno schiavo di portargli altro vino.
- Dovete provarlo, tribuno. È delizioso. Viene dalle mie vigne di
Hispania III.
Nerva annuì silenziosamente mentre una tempesta di fuoco investiva
le linee imperiali.
La maggior parte delle scariche di energia puntavano dritte contro
l'ammiraglia ma, prontamente bloccate dagli schermi, si fermarono
a chilometri dal bersaglio.
Le batterie della “Scipio”, nuovamente, risposero al fuoco.
- Computer.
- Sì comandante.
- Avanzare. Speronamento.
L'ammiraglia Imperiale puntò decisa verso un'altra unità
terrestre.
- Tribuno, mille aurei sulla nostra vittoria entro mezz'ora.
Nerva, serio, continuò a fissare lo schermo TriV.

Sulla postazione di comando di Mukran, Pierre Gustave de
Beauregarde vide sparire dallo schermo un'altra nave terrestre.
I suoi ufficiali sbraitavano ordini nei comunicatori mentre il
panico iniziava a serpeggiare fra i comandanti delle unità.
E dalla Terra, i ministri stavano vedendo tutto.
Il Capo di Stato Maggiore mantenne la calma.
- Monsieur de Bouganville. Fuoco di sbarramento.
- Volete ripiegare, mon general?
- Voglio resistere. Fate convergere i caccia sulla “Scipio”.
- Ma...ma signore...sono pochi e male armati...non potranno/
- Monsieur de Bouganville, vi ho dato un ordine.
Bouganville, senza dire una parola, trasmise l'ordine.

Lo schieramento ribelle, ricevuti gli ordini, si riorganizzò
serrando le file.
I caccia terrestri balzarono in avanti puntando le armi verso la
“Scipio”.
Tutte le batterie aprirono il fuoco.
Nerva sorrise.
- Il nemico sembra in difficoltà, comandante.
- Che vi avevo detto, Nerva? Molto bene. Computer.
- Sì comandante.
- Motori avanti tutta. Manovra di sfondamento. Speroniamo quei
catorci.
Clodio chiamò con un cenno alcuni schiavi che, rispettosamente,
iniziarono a slacciargli la corazza da battaglia.
- Altro che mezz'ora. Entro un paio di minuti sarà tutto finito.
I “Callidus” sciamarono contro i caccia terrestri.
Da entrambe le parti partirono scariche laser.
La “Scipio”, nel frattempo, accelerò ancora puntando verso i
cargo.
La flotta Imperiale, compatta, la seguì.

Il ministro della difesa, Philippe de Mirabeau Hollande, sudava
abbondantemente nel suo doppio petto Armani.
Una pioggia di comunicazioni contraddittorie stavano intasando le
linee del palazzo governativo.
Il premier e i ministri stavano quasi venendo alle mani.
Gli venne voglia di urlare, poi si rese conto che non sarebbe
servito a nulla.
Il collegamento audio con forte Mukran era interrotto.
E in ogni caso nessuno l'avrebbe ascoltato.
- Computer.
- Sì ministro Hollande.
- Attivare l'incrociatore governativo.
Johann Merkel lo fissò incredulo.

La prima nave da carico alzò gli scudi ma lo sperone della
“Scipio” lo trapassò come fosse di carta.
In quel momento una intensa scarica di sbarramento partì dalla
fila terrestre concentrandosi sull'ammiraglia.
Il suo impeto si arrestò.
Le cannonate gravitazionali, deviate dagli scudi, accartocciarono
i due incrociatori - la “Cincinnatus” e la “Pompeus” - schierati
ai lati della “Scipio”.
Lucio Rufo Clodio, furibondo, balzò in piedi dalla sua poltrona,
sbavando bestemmie.
Si guardò intorno con ira poi, prima che Nerva riuscisse ad
avvicinarsi, estrasse la pistola di ordinanza e fece saltare la
testa di uno schiavo.
La sua corazza da battaglia cadde pesantemente sul pavimento di
plancia.
- Bastardi figli di puttana. Computer.
- Sì comandante.
- Avanzare. Fuoco a volontà.
Nerva impallidì. Doveva farlo ragionare.
- Comandante, possiamo/
Clodio sparò alla testa di un altro schiavo.
- Computer, fuoco a volontà ho detto. Annientateli...inceneriteli.
Fateli sparire dalla faccia dell'universo. Questa battaglia la
vincerò io e mio cugino, il Divino Nerone, non mi potrà negare il
trionfo.
- Comandante, se continuiamo ad avanzare senza adeguata copertura
potrebbero/
Clodio si avvicinò minaccioso al suo luogotenente.
- Computer.
- Sì comandante.
- Allontana dalla plancia il Tribuno Elio Fabio Nerva.
L'ufficiale scosse la testa.
- Computer.
- Sì comandante.
- Confermo l'ordine. Motori avanti tutta e fuoco a volontà
- Sì comandante.
Gli scudi della “Scipio” si abbassarono e tutte le armi di bordo
fecero fuoco contemporaneamente.
Una seconda bordata terrestre rispose al fuoco.
Un altro incrociatore imperiale si disintegrò, insieme a un buon
numero di unità ribelli.
L'urlo di vittoria di Clodio si spense nella sua gola quando una
bordata fortunosa centrò in pieno la “Scipio”.
Sprazzi accecanti di energia avvolsero lo scafo dell'ammiraglia
facendo sparire la plancia e tutti i ponti secondari in una nube
di vapore incandescente.
Lucio Rufo Clodio, Ammiraglio della Flotta da Guerra Imperiale,
morì seduto al suo posto.

Su forte Mukran, Beauregarde teneva gli occhi incollati
sull'orologio.
La battaglia infuriava.
Resistete ancora un po'. Mi basta qualche minuto...solo qualche
minuto ancora.

Elio Fabio Nerva, confinato nella sua cabina, fissava a bocca
aperta il suo schermo TriV.
Il ponte di comando era stato spazzato via.
E lui, adesso, era l'unico essere umano in vita sull'intera nave.
- Tribuno.
- Sì computer.
- Il comandante Clodio è morto. Tutti gli ufficiali sono morti.
Assumete il comando della nave?
Nerva, lentamente, annuì.
- Assumete il comando della nave?
- Sì computer.
- Ordini comandante?
- Serrare i ranghi e avanzare.
La “Scipio”, sotto l'effettivo comando di Nerva, era di nuovo viva
e ricominciò a combattere come una belva ferita.
Appena gli scudi si furono ricostituiti, la corazzata si lanciò
nuovamente al centro della mischia.
Le altre navi Imperiali la seguirono coprendola con una salva di
fasci protonici.
I pochi caccia terrestri rimasti fuggirono.
Nerva vide gli scudi delle unità ribelli abbassarsi.
I terrestri stavano per scaricargli contro un'altra bordata.
- Computer, a tutte le navi. Giù gli scudi e fuoco a volontà.
Battiamoli sul tempo.

Beauregarde esultò.
Contatto.

Dal nero cosmico, una pioggia di asteroidi investì la flotta
Imperiale.
Per ordine di Beauregarde erano stati portati su Europa,
accelerati e lanciati da potenti rimorchiatori stellari contro
l'armata dell'Imperatore.
Nell'esatto momento previsto.
Il computer centrale della “Scipio” e quelli periferici delle
altre navi rialzarono gli schermi.
Fu inutile.
Sovraccaricati dal fuoco incrociato delle unità ribelli e incapaci
di assorbire l'urto di un asteroide, gli scudi della “Scipio” si
incendiarono di fuoco bianco.
La corazzata stellare, squarciata in più punti, arse come una
stella per tutta la sua chilometrica lunghezza illuminando lo
spazio circostante.
Rosso.
Gli schermi implosero e il muro saturo di energia concentrò tutta
la sua potenza sullo scafo dell'ammiraglia imperiale.
Giallo.
La stella divenne più vivida poi l'energia accumulata esplose
disperdendosi in un istante.
Blu.
La “Scipio” era stata annichilita.
Nero.

Su forte Mukran gli ufficiali terrestri salutarono l'esplosione
con una grande ovazione.
La corazzata Imperiale, il centro nevralgico dello schieramento
nemico, era stata distrutta.
Non solo, insieme agli asteroidi erano arrivate anche le vere
unità da battaglia ribelli.
Incrociatori stealth costruiti in fretta nei cantieri di base Luna
che si unirono alle unità da carico rimaste.
Come le lame di una tenaglia, le due formazioni si chiusero sulla
flotta Imperiale bersagliandola con tutte le armi.
- Monsieur de Bouganville, ordine generale. Fuoco a volontà.
Nessuno di loro tornerà a casa oggi.
Gli imperiali avevano inflitto gravissime perdite ai terrestri ma
avrebbero pagato tutto.
E subito.
- Oui mon/
Il sorriso di vittoria sul volto del luogotenente terrestre morì
sul suo volto lasciando il posto ad una smorfia di terrore.
Sullo schermo apparve qualcosa, qualcosa di incredibile.

Lo spazio razionale tremò deformandosi quando il planetoide da
guerra “Caesar” uscì dal sub-spazio.
Poco più piccola di Marte, l'unità imperiale puntò le armi contro
la flotta terrestre.
Una dopo l'altra le unità Stealth furono vaporizzate mentre le
navi ribelli troppo vicine furono catturate nella sua orbita e
distrutte, stritolate dagli stessi scudi difensivi.
Era troppo per i terrestri che ruppero le file scompaginando verso
la base lunare.
- Non siamo riusciti ad arrivare in tempo Proconsole. La “Scipio”
è stata distrutta. Il comandante Clodio è morto.
Gneo Domizio Corbulone, Prefetto del Pretorio e inviato personale
del divino Nerone, sorrise fra sé.
- L'Imperatore sarà doppiamente soddisfatto allora. Computer.
- Sì Proconsole.
- Rotta sulla Luna.
- Sì Proconsole.

Forte Mukran era impazzito.
Nessuno credeva a quello che appariva sullo schermo Triv.
Pierre Gustave de Beauregarde era in piedi, incapace di
pronunciare anche solo una parola.
Che cos'è quella mostruosità?
- Ordini mon general?
Come si poteva fermarla?
- Ordini?
Che cosa sarebbe successo una volta arrivata in prossimità della
Terra?
- Ordini?

La “Caesar” superò silenziosamente Marte, procedendo a velocità
standard.
Corbulone aveva lasciato fuggire quello che restava della flotta
terrestre per un solo motivo.
Voleva dare una dimostrazione di forza.
- Che distanza computer?
- Trenta secondi all'entrata nel raggio d'azione, Proconsole.
- Attivare cannone Uranus.
- Sì Proconsole.
Corbulone fissò la Luna.
Le navi terrestri erano tutte rientrate nella base fortificata
vicino al Mare della Tranquillità.
- Siamo a tiro, Proconsole.
Il prefetto del pretorio trattenne il fiato.
- Fuoco.
Il Cannone Planetario a Impulsi Uranus sparò una bordata contro la
Luna.
Un'unica, sola bordata.
Il satellite, che da miliardi di anni orbitava attorno al terzo
pianeta, venne ridotto in atomi.
- Computer.
- Sì Proconsole.
- Trasmettere questo messaggio al capo di stato maggiore
terrestre, general Pierre Gustave de Beauregarde, sul forte
orbitale Mukran.
Io, Proconsole Gneo Domizio Corbulone, inviato personale del
divino Imperatore Nerone, vi ordino la resa incondizionata e la
consegna immediata delle armi.
Avete un minuto per rispondere allo scadere del quale punterò il
cannone Uranus sulla Terra.
Gli occhi di Corbulone scintillarono alla luce dei neon di
plancia.
- Messaggio inviato Proconsole. Attendo risposta.

Pierre Gustave de Beauregarde era in ginocchio.
Incatenato mani e piedi in plancia osservava in lacrime quello che
stava accadendo.
Senza possibilità di scelta, aveva accettato di arrendersi e
consegnarsi, sperando di risparmiare la Terra e i suoi uomini.
Ora, a pochi metri da Corbulone, fissava lo schermo TriV.
Tutti gli ufficiali e i soldati del forte Mukran erano stati
crocifissi alle murate, con la tuta spaziale e tutto, in modo da
prolungare la loro sofferenza prima di morire.
E lui era stato costretto ad assistere.
Rinunciando allo status di cittadini di Nuova Roma, non c'erano
più diritti.
In cuor suo si augurava che il proconsole, in uno slancio di
pietà, gli piazzasse una pallottola nella nuca e che tutto
finisse.
Ma era una pia illusione.
- Ordini Proconsole?
Gneo Domizio Corbulone si avvicinò al generale nemico.
- Puntare Uranus.
Beauregarde sbiancò in volto.
Corbulone sorrise maligno.
- La popolazione sarà senz'altro più docile durante lo sbarco.
- Bastardo, maledetto bastardo senza onore...io/
Il gladium cerimoniale del proconsole si abbatté di piatto sulla
testa del nemico vinto.
Beauregarde crollò a terra, privo di conoscenza.
Corbulone si rivolse ad uno schiavo.
- Fallo rinvenire. Voglio che veda, che veda tutto. Poi portatelo
in cella. Farà compagnia agli altri schiavi che manderò su Nuova
Roma.

Mancava ancora un'ora, forse poco più al sorgere del sole su
Bruxelles ma nessun membro del governo rivoluzionario terrestre
aveva chiuso occhio quella notte.
Johann Merkel scorreva i rapporti che continuavano ad arrivare,
con espressione sconsolata.
La flotta stellare annichilita, forte Mukran catturato e...e la
Luna distrutta.
E che diavolo era quella mostruosità apparsa nello spazio dal
nulla?
Com'era stata possibile un simile bruciante disastro?
Chi aveva mancato?
Attorno a lui, tutti gli altri ministri portavano sul volto i
segni della nottata passata in bianco e della consapevolezza
dell'approssimarsi della fine.
Oziosamente si domandò se anche il suo viso fosse segnato a quel
modo.
Il ministro della difesa Philippe de Mirabeau Hollande tentava
invano di comunicare con l'incrociatore governativo.
Il ministro degli esteri, Diego Fernando Calderon, e il ministro
dell'economia, Rodolfo Monti, discutevano animatamente.
- Senza contropartita non accetteranno alcuna resa.
- E allora dovremo imporre una tassazione straordinaria,
necessitiamo di/
- Se sbarcano si prenderanno tutto comunque.
- Se ciò dovesse accadere, quel denaro servirà per la
ricostruzione.
- Ma non capite brutto idiota, che non resterà nulla da
ricostruire?
- Come vi permettete? Io vi/
Il telefono personale del premier squillò.
I ministri, per un momento, smisero di litigare.
- Sì...sì siamo...che cosa?
La cornetta quasi cadde dalle mani del primo ministro quando,
acceso lo schermo TriV, vide che cosa stava accadendo.
Dodici grandi agglomerati continentali – New York, Los Angeles,
Mexico City, Rio de Janeiro, Londra, Parigi, Mosca, Beijing,
Tokyo, Il Cairo, New Delhi e Sidney – avevano fatto la fine della
Luna.
Ridotte in atomi da quello stramaledetto cannone Uranus.
Non c'erano superstiti.
Un lampo nel cielo distrasse per un attimo lo sguardo del premier,
poi tutto scomparve.

L'invasione era in atto.
Le navi Imperiali da trasporto stavano atterrando nei pochi
spazioporti terrestri rimasti attivi.
Milioni di cloni sbarcavano ininterrottamente, suddivisi in
legioni e affiancati da migliaia di mezzi d'appoggio, artiglieria
da campo e rifornimenti.
Li comandava il luogotenente di Corbulone, il feroce Fulvio Ofonio
Tigellino.
I suoi ordini erano precisi e semplicissimi.
Suddividere le legioni e prendere il controllo dell'intero
pianeta.
Dopo settantadue ore, Tigellino si considerava padrone assoluto
della Terra.
I suoi eserciti avevano conquistato la quasi totalità delle
maggiori megalopoli planetarie, spazzando via la scarsa resistenza
che avevano incontrato.
E punendo senza pietà la popolazione.
Ottocentomila uomini erano stati crocifissi ad Osaka, un milione e
trecentomila a Cape Town, due milioni a Buenos Aires.
Calcutta era stata data alle fiamme e tutti gli abitanti, nessuno
escluso, erano morti carbonizzati sotto lo sguardo divertito della
Sedicesima legione.
Un uomo adulto su tre, a Berlino, era stato decapitato mentre
tutti gli anziani di Toronto erano stati messi alla graticola.
Poi le donne erano state costrette a mangiarseli, violentate e
alla fine trucidate.
Tigellino aveva ricevuto in regalo da alcuni comandanti decine di
sacchi pieni di orecchie, nasi e teste mozze.
Ovunque vigeva la legge marziale.
File di migliaia di uomini, donne e bambini marciavano in catene
verso i cargo stellari.
Sarebbero diventati schiavi di Nuova Roma.
Erano coloro con cui la fortuna era stata più crudele.

Le guardie svizzere scattarono sull'attenti.
Giovanni Paolo Quindicesimo, sommo pontefice della Chiesa
Cattolica, si sporse dalla balconata di San Pietro per l'Angelus
domenicale.
Aveva ottant'anni e non si era mai sentito tanto vecchio e debole.
L'intera cittadinanza della megalopoli Vaticana era in attesa
delle sue parole, chi sulla piazza, chi davanti agli schermi TriV.
Che cosa poteva mai dire loro?
Come poteva scacciare la loro paura, quando la paura stava per
arrivare.
- Santità...
Il pontefice sorrise stancamente al cardinale Bellarmino.
L'avresti mai detto, amico mio, che saremmo vissuti tanto a lungo
da vedere questo?
- Posso farcela, Giulio...l'ho fatto altre volte no?
Sospirando, il pontefice avanzò.
La piazza, gremita, ammutolì.
- Figli miei, tanti secoli fa, quando questa stessa piazza ancora
non esisteva, si credeva che il più grande nemico dell'Uomo fosse
il diavolo.
Ma oggi...oggi sappiamo che non è vero.
L'uomo è il più grande nemico dell'uomo.
Il suo desiderio di potere è il più grande nemico dell'uomo.
Milioni di nostri fratelli sono morti, combattendo oppure in
croce...e non torneranno mai più a casa.
Milioni di nostri fratelli sono in viaggio per Nuova Roma, come
schiavi...e non torneranno mai più a casa.
Presto, è inutile negarlo, le legioni dell'Imperatore arriveranno
anche qui.
Che cosa succederà quel giorno?
Il pontefice scosse lentamente la testa.
Bellarmino abbassò lo sguardo.
- L'Imperatore si vanta di essere signore e padrone dei cieli e
delle terre.
Ma io vi dico che egli mente.
Mente a voi, mente a se stesso.
Figli miei, solo l'Onnipotente...lui e nessun altro è padrone di
tutte le cose, visibili e invisibili.
La Terra non è di nessun uomo ma sua, è sempre stata sua, sempre
anche quando non lo sembra.
Ed egli sa quante volte il male è sembrato prevalere sul bene,
quante volte la paura ha ucciso le menti e raggelato le anime
degli uomini.
Eppure il bene ha sempre vinto.
Per cui figli miei, non perdete la speranza, non abbiate paura
perché/
I Pretoriani della Terza Legione sciamarono come calabroni su
Piazza San Pietro.
Dalle strade, dai colonnati, paracadutandosi dal cielo,
trasportati dai blindati, irruppero nel cuore della Megalopoli
Vaticana sparando per uccidere.
Raffiche di fucili al plasma e granate a frammentazione aprirono
pesanti vuoti nella folla indifesa prima che questa, terrorizzata,
si desse alla fuga.
Sconvolto e impotente, il Sommo Pontefice vide i fedeli
calpestarsi a morte nel tentativo di salvarsi la vita prima che il
cardinale Bellarmino lo obbligasse a rientrare.
Cadaveri di bambini e anziani, straziati, maciullati, rimasero sul
selciato come bambole rotte.
Coloro che furono catturati vivi andarono sulle croci al Colosseo.

I passi di Tigellino risuonarono marziali nei corridoi vaticani,
seguiti da presso da quelli cadenzati, innaturali, dei Cyborg
Pretoriani.
Mostruosi colossi neri di plastica e metallo, di umano in questi
veterani non rimaneva che il cervello.
E anche quello era stato ricondizionato lasciando come unici
ricordi l'incrollabile fedeltà all'Imperatore e le tattiche di
battaglia.
La loro artificiale presenza era un insulto agli affreschi di
Raffaello e ai capolavori d'arte ma a Tigellino questo non
interessava.
Presto se ne sarebbe tornato a Nuova Roma, lontano da quel
cimicioso pianeta di vermi sediziosi.
Ma prima doveva convincere un vecchio rincoglionito a fare quello
che doveva esser fatto.
I due spaventati svizzeri a guardia degli appartamenti papali
disincrociarono le alabarde.
Che altro potevano fare altrimenti?
Tigellino entrò a viso alto.
Alle sue spalle si schierarono i Pretoriani, con le armi spianate,
di fronte a lui un vecchio vestito d'oro e porpora sedeva su un
trono d'oro e porpora.
- Alfredo Antonio Colonna, meglio conosciuto come Giovanni Paolo
Quindicesimo, vi saluto a nome del Divino Imperatore Nerone.
Essendo ancora validi gli accordi del millenovecentoventidue ed
avendo l'invincibile esercito imperiale eliminato l'intero governo
planetario, vi trovate nella posizione di essere l'unico capo di
stato rimasto.
Vi intimo pertanto di apporre la vostra firma ed il vostro sigillo
sui documenti che sanciranno la resa incondizionata della Terra
all'impero di Nuova Roma e la sua sottomissione assoluta al divino
Imperatore Nerone in qualità di provincia periferica.
Sarete ricompensato con la nomina di patrizio.
Il papa sollevò gli occhi, furioso, su quel viso crudele.
Forse questa carneficina era parte dei disegni divini, forse
l'Onnipotente aveva davvero abbandonato il suo popolo.
Ebbene se così stavano le cose, almeno lui non l'avrebbe fatto.
Conclusa la guerra sarebbero forse finiti i massacri, ma sarebbe
morta per sempre anche la speranza.
Puntellandosi sulle braccia, il papa si alzò dal suo soglio.
- Non possiamo. Non vogliamo. Non lo faremo.
Tigellino, furibondo, si avvolse nel mantello e girò sui tacchi
rivolgendosi alla guardia pretoriana.
- Il signor Colonna è agli arresti. Partirà insieme agli altri
schiavi alla volta di Nuova Roma, con la prossima navetta.
[close]

Secondo Atto

Spoiler
Rocio Alvarez, impiegata di quarta categoria presso la Banca
Nacional di Barcellona, si asciugò gli occhi.
Da dietro le imposte sbarrate vedeva marciare interminabili file
di mezzi corazzati pesanti scortarti da centurie di legionari in
assetto da combattimento.
La città era illuminata a giorno da potenti fari da segnalazione e
il rumore dei passi, il rombo dei motori, i proclami urlati dai
megafoni e il fragore degli spari delle esecuzioni sommarie
rendevano impossibile dormire.
E impossibile vivere.
Quando finirà? Quando?
- Mamma..mamma? Allora? Come va a finire?
Rocio girò la testa verso il letto dove suo figlio, Miguel, era
sdraiato.
Solo per lui non si era buttata dalla finestra di casa quando, tre
giorni prima, era stata stuprata in strada da un gruppetto di
legionari.
Quando avevano finito con lei lasciandola sull'asfalto coi vestiti
strappati, era semplicemente tornata a casa e s'era fatta una
doccia.
Era ancora viva, con uno schifoso ricordo in più, ma viva.
E libera, libera per Miguel.
Abbozzò un sorriso forzato riprendendo in mano il libro che fino a
poco prima stava leggendo.
- I loro calci fendono l'aria. I loro pugni spaccano la pietra. E
ogni volta in cui il mondo ha bisogno di loro tornano...per poi
scomparire nuovamente quando il pericolo non c'è più.
Il viso di Miguel era raggiante.
Sembrava ancora più piccolo sprofondato nelle coperte e circondato
da pupazzi.
Ed era vivo.
E libero.
- E torneranno mamma?
Rocio si alzò dalla sedia. Non voleva che suo figlio la vedesse
piangere.
- Sì tesoro...torneranno presto.
[close]

Terzo Atto

Spoiler
La Ventiseiesima Legione marciava dal Baltico verso l'agglomerato
di San Pietroburgo.
Giunti lì si sarebbero poi ricongiunti con la Terza in arrivo
dalla Siberia per puntare sull'India.
Era una bella giornata di fine Giugno quando, dal suo carro antiG,
il comandante della colonna Furio Massimo Marcello vide
distintamente la strada ghiacciarsi.
Non fece subito caso all'uomo incappucciato che fronteggiava la
colonna.
Non finché questi lanciò qualcosa sul veicolo corazzato di
Marcello.
Il comandante ordinò l'alt.
Il suo carro antiG “Mantis” si abbassò bloccandosi permettendo a
Marcello di sporgersi dalla torretta di comando.
Gli occhi morti del luogotenente Macrone, comandante della Terza,
lo fissavano dalla sua testa mozza.
E completamente gelata.
- Tornate indietro.
Marcello, furioso, urlò l'ordine di avanzare, sparando
personalmente raffiche di energia dal cannoncino della torretta.
L'uomo incappucciato non si mosse ma tutti videro un alone celeste
circondare il suo corpo.
L'intera Ventiseiesima Legione, nessuno escluso, lo vide
distintamente prima di essere rinchiusa in un colossale blocco di
ghiaccio.
Imprigionati nel silenzio a – 200 gradi.
Si dice che la condizione di stasi criogenica sia del tutto simile
alla morte apparente.
I sensi, semplicemente, sono assopiti.
Gli uomini della Ventiseiesima, però, ebbero tutto il tempo –
un'eternità – per accorgersi di morire quando l'uomo incappucciato
alzò le braccia congiungendole sopra il capo e scaricò energia
sufficiente per annichilire il blocco di ghiaccio.

Fulvio Ofonio Tigellino non credeva ai suoi occhi.
Il suo quartier generale di Palazzo Grazioli, nell'agglomerato
Vaticano, era in subbuglio.
Dai fronti che sembravano essere sotto controllo imperiale
arrivavano notizie inquietanti.
Tanto incredibili da mettergli i brividi.
La Prima Legione Corazzata stanziata a Buenos Aires era stata
inghiottita e distrutta da una selva di rovi.
Il rapporto precisava come la selva sembrasse essere in effetti
uno smisurato roseto.
Un roseto...
Né i carri antiG né i piloti erano stati ritrovati.
Un uomo incappucciato, però, era stato visto allontanarsi dallo
spazioporto appena un attimo dopo.
La Quarta Legione - di stanza a San Diego - era stata invece
inghiottita dalla terra.
Una fenditura s'era aperta all'improvviso proprio sotto i loro
piedi, cancellando dalla faccia del pianeta il loro campo.
Non si erano registrati movimenti tellurici nella Faglia di San
Andreas quel giorno – oltretutto l'agglomerato era intatto - ma
anche qui un uomo incappucciato era stato avvistato.
In più la fenditura si presentava perfettamente netta, dritta come
la lama di una spada.
La Ventiseiesima e la Terza, poi, sembravano essere svanite nel
nulla.
Tigellino bestemmiò fra sé.
A quanto sembra i terrestri non erano ancora stati del tutto
domati.
Qualche sacca di resistenza, chissà come, gli era sfuggita.
Molto bene.
La rappresaglia sarebbe stata tremenda.

- Arrivano.
Tre obelischi di fuoco piovvero dal cielo come stelle sulla selva
di Teutoburgo.
Le Capsule di Trasferimento atterrarono con fragore, sublimando
ettari di foresta.
I legionari e i mezzi antiG della Settima, della Quinta e della
Quattordicesima Legione, erano schierati in attesa.
Era una forza imponente, con l'ordine di devastare ogni cosa dalla
Germania alla Russia e dotata del volume di fuoco necessario a
portare a termine con successo il compito assegnato.
Fu quindi con stupore che gli ufficiali notarono un uomo
avvicinarsi.
Esile di corporatura e gentile nei tratti, l'uomo sorrideva
dolcemente suonando una cetra.
Gli abiti che indossava erano strani, parevano provenire da molti
secoli prima.
La sua voce era tanto dolce da esser fuori luogo.
- A cosa vi servono, stranieri, tutte queste armi? Siete i
benvenuti qui...a patto naturalmente che ve ne liberiate. E
subito.
Il vessillario della Quattordicesima – era l'imperiale più vicino
al nuovo arrivato – scoppiò a ridere.
- E se non lo facciamo, signorina?
L'uomo, fissando il vessillario, bloccò per un istante la mano che
pizzicava le corde.
- Allora morirete tutti.
La musica ricominciò.
Il vessillario cadde a terra tagliato a pezzi non più grandi di
una noce.
Gli occhi dei Legionari, stupefatti, andarono dal cumulo di carne
sanguinante al musico.
Scomparso.
Un fulmine rischiarò il cielo per schiantarsi con violenza sul
terreno duro.
- Non lo avete sentito? Giù le armi.
Un altro uomo era apparso dalla parte opposta della strada.
Esattamente dove si era schiantato il fulmine.
Alto, biondo e possente fissava con disprezzo i soldati invasori.
Dopo un attimo di smarrimento, un fuoco infernale di fucili al
plasma si concentrò su di lui.
Diradatesi fumo e polvere, i legionari scoprirono con orrore che
l'uomo era illeso.
E li fissava come fossero farfalle inchiodate su una tavola.
- Adesso, tocca a me.
Senza aggiungere altro, lasciò partire dalle sue mani due sfere di
energia viola.
Una delle capsule di trasferimento esplose in una nube di metallo
fuso.
I portelli stagni di quelle superstiti si spalancarono.
Due Titani Imperiali – gigantesche robofortezze alte più di
duecento metri ed equipaggiate con armi tattiche pesanti – ne
uscirono facendo tremare il terreno.
Le batterie antiG aprirono il fuoco.
Ma l'uomo non era solo.
All'improvviso un mare di fiamme investì i legionari delle prime
file, branchi di enormi lupi sbavanti guidati da una figuretta
selvaggia e fulminea ne attaccarono i fianchi.
Urla di agonia risuonarono nella selva, sovrastate da una risata
stridula.
Un Titano iniziò a sparare con tutte le armi ma poi le sue braccia
caddero, tagliate da due asce a doppio taglio lanciate da un
gigante barbuto.
Due agili figure gemelle si arrampicarono sulla sua struttura
provocando piccole esplosioni in successione.
Una musica struggente, ipnotica, proveniente da chissà dove,
rendeva il tiro dei legionari inefficace.
Il terzo Titano, stritolato da sottili corde taglienti, cadde a
terra schiacciando uomini e mezzi.
Poi un ottavo uomo uscì dalla foresta.
Né alto né basso, né esile né massiccio, nessuno lo avrebbe
notato.
Ma il suo sguardo metteva i brividi.
E quando alzò le braccia verso il cielo, l'intera selva di
Teutoburgo prese vita stritolando e schiantando uomini e mezzi.
In un'ora tutto era finito.
Nessun Imperiale era sopravvissuto.

Cento Decurie di Caccia Terrestri “Venator” e dieci di Bombardieri
Pesanti “Chimaera” – l'intera Decima Legione di Cavalleria
dell'Aria – volava compatta in direzione di Okinawa.
Le isole del Giappone, presto, sarebbero sprofondate, inghiottite
dal Pacifico.
Tutte le unità volavano a bassa quota per evitare di essere
individuate.
Non che ci fosse pericolo.
L'intera rete di intercettazione contraerea Terrestre era stata
distrutta durante la prima ondata d'invasione.
Ma i comandanti volevano la sorpresa.
Il cielo era terso, l'umidità e la temperatura dell'aria ottimali,
il radar sgombro.
Poi un immane mostro marino uscì dalle acque ruggendo e mulinando
i tentacoli.
Le sue sei gigantesche teste – di ape, di lupo, di pipistrello, di
orso, di aquila e di serpente – sembravano, di tanto in tanto,
fondersi in una sola.
Quella di una fanciulla.
Le Decurie ruppero la formazione disperdendosi.
- Aquila uno ai piloti della Terza Decuria, manovra evasiva,
ripeto manovra evasiva. Coprite i Bombardieri.
La Decuria scivolò d'ala, facendo compiere ai Caccia un brusco
angolo retto.
I piloti strinsero i denti per l'accelerazione poi fecero fuoco,
lanciando una salva di missili nucleari contro la bestia.
Scomparsa.
Il mare, in quel momento, risvegliò tutta la sua selvaggia furia
primitiva.
Onde dense come muri di mattoni sferzarono violentemente le acque
mosse e ribollenti, scagliando le loro creste in alto nell'aria,
tanto in alto da afferrare i caccia e trascinarli negli abissi
inghiottendoli.
I venti erano tanto forti da sembrare il respiro di Dio stesso.
Il mostro riapparve poco più lontano, le sue teste sputarono
fiamme contro i “Chimaera” scortati dai caccia.
- Aquila uno a tutti i piloti, accerchiate quella cosa. Fuoco a
volontà, ripeto fuoco a volontà.
Colonne d'acqua alte centinaia di metri si sollevarono nuovamente
dall'oceano investendo in pieno interi stormi.
- Comandante ci stanno/
- Fuoco...fuo/
- Dei...l'acqua...l'acqua è/
- Aquila uno, qui Aquila uno, salire di quota, presto, salire di
quota.
Cinque Decurie virarono verso l'alto, rischiando lo stallo.
Alcuni piloti svennero, altri sputarono sangue.
L'aria attorno a loro si addensò, diventando giaccio.
I “Venator” precipitarono in mare.
I cuori dei piloti, nelle carlinghe, erano già stati fermati dal
gelo.
Con gli strumenti impazziti, i superstiti tentarono di fuggire.
Alcuni, guidati da una musica struggente, iniziarono a perdere
quota.
Altri videro sugli schermi l'immagine dell'Imperatore che li
invitava ad atterrare per ricoprirli di onori.
Felici, sorridenti, non si resero nemmeno conto che i motori dei
loro “Venator” perdevano potenza diventando ingovernabili.
Attirati fuori rotta, trovarono la morte esplodendo contro le
scogliere.
Altri continuarono a salire di quota, sino a rivedere il cielo
azzurro.
Davanti a loro, levitando a gambe incrociate a tre chilometri di
quota, videro un uomo che li attendeva.
La sua pelle era del colore dell'ambra, i suoi capelli erano
candidi.
Quando aprì gli occhi il silenzio della dimenticanza inghiottì
arei ed equipaggi.
I Bombardieri, indifesi, mantennero la rotta quando di fronte ai
loro occhi si manifestò una visione da incubo.
Centinaia di stelle ruotavano e cadevano da un cielo nero per poi
collidere l'una contro l'altra.
Un'immane esplosione li cancellò dalla faccia della Terra.

Fulvio Ofonio Tigellino, le mani incrociate dietro la schiena,
camminava avanti e indietro nel suo ufficio.
La sua unica compagnia in quel momento era un colossale,
silenzioso Pretoriano guardia del corpo e questo non lo aiutava a
calmarsi né ad ingannare il tempo.
La voce del computer lo inchiodò sul posto.
- Comandante.
- Sì computer.
- Ho appena ricevuto rapporti dal fronte cinese e da quello
spagnolo.
Tigellino, impaziente, sbatté il pugno sulla scrivania.
- E che cosa aspetti? Riferisci.
- Subito comandante.
Il computer attivò lo schermo TriV e fece partire alcuni filmati.
Gli occhi di Tigellino quasi schizzarono fuori dalle orbite.
No.
No, no, no.
Non era possibile.
Non poteva essere vero, no.
Un uomo incappucciato, sulle rive del Fiume Giallo,
aveva...aveva...per Giove, aveva evocato dei dragoni.
Decine, centinaia di dragoni che, precipitando già dal cielo,
avevano distrutto le Legioni stanziate in quella zona.
Tigellino guardò e riguardò il video, sperando di vedere soldati,
o mezzi...o chissà cosa.
Ma non c'era nulla.
Solo l'uomo e i dragoni.
- Computer
- Sì Comandante.
- Attendibilità del video?
- Novantanove virgola otto per cento comandante.
Tigellino si sedette pesantemente sulla sua poltrona.
- Carica quelli dal Portogallo.
- Sì Comandante.
Davanti ai suoi occhi, Tigellino vide una pioggia di fulmini
abbattersi contro il castrum di Lisbona.
Il cielo era sereno, eppure un reticolo di scariche atmosferiche
stava incenerendo ogni cosa nel raggio di chilometri.
Scaturivano persino dal suolo.
Prima che il video andasse a nero, Tigellino distinse una figura
umana allontanarsi dalle rovine dell'accampamento.
Una sorta di ruggito riecheggiò nell'area.
- Non c'è altro, Comandante.
Tigellino urlò la sua rabbia.
Prese a calci i mobili, fece a pezzi un quadro comandi, sparò
all'impazzata contro un'antica statua.
- Comandante.
- Cosa cazzo vuoi ancora, computer?
- Messaggio prioritario dalla “Caesar”, Comandante.
Tigellino tentò di ricomporsi.
Il suo viso era paonazzo, le vene del collo a vista.
- Passamelo.
L'immagine olografica di Corbulone torreggiò dallo schermo Triv.
Su Palazzo Grazioli scese il silenzio più assoluto.
- Fulvio Ofonio Tigellino, brutto idiota.
Tigellino, furioso e umiliato, non poté far altro che lasciarlo
sfogare.
- Vi consegno un pianeta domato, senza più difese spaziali o
terrestri e voi cosa fate, incompetente incapace?
Sette legioni perse...sette. Più armi e mezzi.
- Ma...Proconsole...io/
- Silenzio. E non solo, no. In aggiunta non siete nemmeno riuscito
a piegare la volontà di un vecchio...di un vecchio, per gli dei.
- L'ho...l'ho appena mandato con una navetta su/
- Ho detto silenzio. Ristabilite immediatamente l'ordine. Avete
ventiquattr'ore. Ne va della vostra testa.
L'immagine svanì, senza che Tigellino potesse ribattere.
Il comandante si precipitò al quadro di comunicazione per
convocare il suo stato maggiore quando il fragore degli spari,
all'esterno, lo interruppe.

In strada infuriava la battaglia.
File di Pretoriani sparavano all'impazzata contro un colosso
incappucciato.
Immobile a braccia conserte, sembrava non risentire per nulla
delle scariche a impulsi.
Alle sue spalle decine di Pretoriani giacevano a terra
accartocciati come lattine.
Tigellino – sanguinario, inetto al comando forse ma certamente non
un vigliacco – uscì dalla porta principale di Palazzo Grazioli
indossando la corazza da battaglia, il gladium in una mano e la
pistola a impulsi nell'altra.
Guidava quattro squadre di Pretoriani con armi pesanti e altre
stavano sopraggiungendo dai quartieri militari vicini.
Le batterie laser montate sui tetti stavano diventando
incandescenti.
- Fuoco, fuoco. Tremila sesterzi a chi mi porta quel bastardo.
Vivo o morto.
L'uomo iniziò ad avanzare.
Il fuoco rivolto contro di lui si intensificò.
I colpi rimbalzavano sul suo petto, incapaci di ferirlo.
- Che diavolo fate, idioti? Non lasciatelo passare. Inceneritelo.
L'uomo sorrise – era un sorriso caldo – poi disincrociò le
braccia.
Un'onda d'urto terrificante, dorata, investì Tigellino e la sua
guardia spazzandoli via.
Il gigante incappucciato non era scomparso come coloro che lo
avevano preceduto.
In piedi, accanto alle rovine di Palazzo Grazioli – e dei venti
isolati vicini – sollevò sopra la testa un immane maceria di marmo
scolpito.
Il corpo di Tigellino giaceva sotto di essa, maciullato ma ancora
vivo, in compagnia dei rottami delle sue guardie.
Gli occhi quasi spenti del comandante si posarono sull'uomo in
piedi di fronte a lui.
Coi polmoni forati e le labbra spaccate, Tigellino tentò di
parlare sputando sangue.
- A...ac...acqua...acqua.
Il colosso frugò nelle pieghe del mantello, si chinò e sollevò
delicatamente Tigellino sino a farlo sedere.
Poi versò dell'acqua nella sua gola ferita.
- Un lavoro di fino come sempre eh?
Un altro uomo incappucciato apparve alle spalle del primo.
Il primo uomo si rialzò, fronteggiandolo.
- È il risultato che conta. Sono tutti morti.
- Tutti?
Il secondo uomo avanzò sino al comandante morente, chinandosi poi
su di lui per esaminarlo.
- Guardami.
L'uomo abbassò il cappuccio, rivelando un viso giovanile e lunghi,
biondo capelli.
Poi alzò una mano.
L'unghia del suo dito indice s'era allungata sino a divenire un
artiglio, una cuspide affilata.
E aveva assunto il colore del sangue.
- Va' coi tuoi uomini, Fulvio Ofonio Tigellino.
Un lieve raggio di luce scarlatta penetrò la corazza ed il corpo
del comandante all'altezza del cuore.

La “Caesar” tentava di comunicare con Palazzo Grazioli da più di
due ore.
Niente.
A dire il vero nessuno degli accampamenti o dei fronti attivi
rispondeva.
Come se fossero tutti improvvisamente impegnati in combattimento.
O morti.
Corbulone capì che qualcosa era in atto ed era possibile che le
forze a disposizione di Tigellino non fossero sufficienti.
- Computer.
- Sì, Proconsole.
- Comunica a quello che è rimasto della flotta di Clodio di
convergere verso la Terra.
Voglio che spazzino l'intera superficie. A cominciare
dall'agglomerato Vaticano.
- Sì Proconsole.

La popolazione vaticana non si era ancora resa conto di essere
libera.
È vero, i legionari non marciavano più lungo le vie
dell'agglomerato.
Però radio e trasmissioni TriV tacevano, così come le
comunicazioni fra le varie megalopoli.
In un clima di minacciosa ed incerta calma apparente, le persone
preferivano restare nelle loro case.
Con porte e finestre ben sbarrate.
Ma se avessero alzato i loro sguardi, avrebbero visto gli
Incrociatori Imperiali avvicinarsi.
Puntini luminosi nel cielo, e niente più, ma erano inconfondibili.
Poi aprirono il fuoco.
Raffiche di fasci di protoni e missili neutronici partirono in
direzione dell'agglomerato.
Un uomo incappucciato, ritto in piedi su Ponte Milvio, distese le
braccia.
Le salve imperiali esplosero.
Davanti a loro non c'era nulla, solo l'azzurro terso del cielo
d'estate.
Ma esplosero lontano dalla città – tutte alla medesima quota come
fermate da un muro di vetro – senza arrecarle danni.
Una voce risuonò nella mente dell'uomo.
- Non credo tu possa farcela da solo.
- Ah no?
- No.
L'uomo sorrise lievemente.
- E tu potresti essermi utile?
- Sì.
- Capisco. Che cosa mi suggerisci di fare?
- Oh, non lo so. Usa la tua immaginazione.
L'uomo abbassò il cappuccio.
Sulla sua fronte campeggiava un punto rosso laccato.
Il terzo occhio.
Uno, due, tre respiri.
Un altro uomo, dal nulla, si materializzò accanto al primo.
- Ecco. Bravo.
Il secondo uomo guardò le navi, in aria, pronte a sparare
nuovamente.
- Mio fratello ha già combattuto...sei pronto?
Il primo uomo annuì.
- Sì, facciamolo.
Entrambi i loro corpi furono circondati da un alone dorato.
Poi tesero le braccia verso l'alto.
Due piccoli buchi neri apparvero ai lati della flotta,
risucchiando istantanei ogni singola nave.
Dov'erano finite? Alcune in un'altra dimensione, altre nel nucleo
ardente di una stella.
Ma sono solo voci.
I cittadini vaticani spalancarono le finestre, uscirono in strada
col viso rivolto in aria attirati dal fragore.
Ma nel cielo d'Italia non c'era nulla.

Corbulone guardò lo schermo TriV con aria interrogativa.
La flotta di Clodio, di punto in bianco, era scomparsa dai radar.
Completamente.
Era ovvio che c'era un guasto nel sistema.
E doveva essere riparato, subito.
- Computer.
- Sì Proconsole.
- Ripristinare immediatamente il contatto con la flotta.
- Il contatto è attivo Proconsole.
- Cosa? Quindi...
- Tutti gli strumenti della “Caesar” sono in piena efficienza,
Proconsole.
La flotta di Clodio è stata distrutta.
Il viso di Corbulone divenne paonazzo.
- E va bene, maledetti bastardi. Avete invocato tanto la pioggia
che adesso vi darò il diluvio. Attivare Uranus.
Sventolando il mantello, il Prefetto del Pretorio, andò da una
stazione all'altra.
Voleva controllare ogni cosa personalmente, accertarsi che davvero
tutto fosse in piena efficienza.
Voleva distruggere quel maledetto pianeta.
- Uranus carico e pronto, Proconsole.
Corbulone sputò con rabbia sullo schermo TriV.
- Fuoco.

In Nepal, un uomo sedeva su un tappeto, nella posizione del loto.
Il suo viso era serio, serio ma sereno.
L'uomo percepì un cambiamento nell'aria e pensò che ci sarebbe
voluto tutto il potere di cui disponeva.
Attorno al suo corpo si addensò una maestosa aura dorata.
I grani del rosario che portava al collo iniziarono ad ondeggiare,
pulsando di luce.
L'uomo sorrise.
Poi spalancò gli occhi.

Corbulone vide il pianeta circondato da una sfera di energia che,
benevola, l'aveva avvolto per proteggerlo.
Contò uno, due, tre, quattro secondi.
La Terra era ancora lì, Uranus aveva fallito.
Il Prefetto del Pretorio non poteva sapere che quella stessa
energia, dopo aver annientato il colpo di Uranus, era rifluita
sulla Terra spazzando via quello che era rimasto della sua armata.
Il pianeta era stato purificato.
Il supremo comandante dell'Armata Imperiale si chiese quale
mostruosa potenza era stata in grado di disperdere l'impulso del
cannone divoratore di mondi.
E chi...o che cosa l'aveva generata?
Gneo Domizio Corbulone, Prefetto del Pretorio e inviato personale
del divino Nerone, ebbe paura.
Ma durò poco.
Un lampo d'oro – una freccia – era stata lanciata dalla Terra e
puntava dritta verso la “Caesar” a trecentomila chilometri al
secondo.
- Gli scudi, su gli scudi.
La freccia d'oro, veloce come un raggio di sole, schiantò gli
schermi e passò il planetoide da parte a parte come fosse burro.
La “Caesar” esplose.

Giovanni Paolo Quindicesimo camminava in catene sul marmo di Nuova
Roma.
Era senza tiara, né bastone, né altri paramenti sacri.
Sarebbe sembrato un prigioniero come un altro se non fosse stato
per i Cyborg Pretoriani che lo circondavano sorvegliandolo a
vista.
Tutto attorno a lui, sin dove l'occhio poteva arrivare e oltre,
c'erano templi, basiliche, archi di trionfo, colonne
commemorative, teatri, statue, monumenti, caserme della guardia e
domus patrizie.
L'intero pianeta era – letteralmente – ricoperto d'oro e di marmo
candido, rosa, nero, serpentino e in effetti l'Orbe corrispondeva
all'Urbe.
Trenta miliardi di uomini – civili o militari, nobili o schiavi,
laici o religiosi – vivevano all'ombra della colossale Domus
Aurea, il palazzo Imperiale che ricopriva un terzo della
superficie planetaria.
L'interminabile colonna di schiavi procedeva sferragliando lungo
la Via Massima, affiancata da due file di Pretoriani armati che
tenevano indietro una folla di curiosi.
Sarebbero stati rinchiusi sino al ritorno in patria di Corbulone,
al cui trionfo avrebbero partecipato sfilando dietro il suo carro
antiG dorato.
Poi sarebbero stati divisi.
Gli uomini più giovani e forti e le donne più belle sarebbero
diventati schiavi personali dell'Imperatore, gli altri sarebbero
stati venduti nei vari mercati alla Nobilitas planetaria.
- Alfredo Antonio Colonna.
Un Pretoriano si era avvicinato al Santo Padre, fissandolo con
occhi luminosi sulla sua ottusa maschera di plastica nera.
- Sì, sono io.
Il Pretoriano lo sganciò dalla catena che legava insieme tutti gli
schiavi poi, col calcio del fucile, gli diede una spinta violenta
per farlo camminare.
Se qualche schiavo protestò per il trattamento riservato al
Pontefice, nessun Cyborg se ne curò.

- E così sei tu l'ultimo piccolo uomo che si oppone al mio potere.
Gli altoparlanti diffondevano nella stanza la voce sintetizzata
dell'Imperatore.
Come per i suoi veterani della Guardia Pretoriana, così anche per
Nerone l'unica parte ancora effettivamente viva del suo corpo era
il cervello.
Ridotto ad una mummia rinsecchita – ma abbigliata di ricchi abiti
onusti d'oro e gioielli – l'Imperatore sedeva immobile con decine
di cavi che dalla sua testa scomparivano all'interno del trono.
Non poteva parlare, ridere, bere, mangiare o camminare.
Poteva unicamente pensare.
Regnava, in quello stato, da circa trecento anni.
- Sì, io sono il Vescovo dell'agglomerato Vaticano, Giovanni Paolo
Quindicesimo.
Gli altoparlanti, ancora una volta, gracchiarono monotoni.
- Il tuo pianeta è in ginocchio, come te adesso. Ma tu, a
differenza sua, puoi rialzarti se firmerai la pace e ti
sottometterai a me.
Il Santo Padre chinò la testa, come se non riuscisse più a
sopportare il dolore.
- Se non lo farai, uomo, ordinerò al comandante Corbulone di
distruggere il tuo misero pianeta. Ho avuto fin troppa pazienza
con voi provinciali.
Le catene che lo imprigionavano caddero a terra rompendo il
silenzio.
Giovanni Paolo Quindicesimo sollevò la testa ridendo con crudeltà.
L'espressione mite e caritatevole era scomparsa per lasciar posto
ad un ghigno crudele.
- Corbulone è saltato in aria con tutta l'armata che ci hai
mandato contro.
Il Papa sollevò il pugno destro, chiuso con l'indice teso verso
l'alto.
Una piccola sfera violacea iniziò a prendere forma.
I Pretoriani, uscendo dalla loro inattività, si lanciarono contro
di lui.
- E ora andrete tutti a raggiungerlo. Vattene in Ade Nerone.
Sekishiki Meikai Ha.
La piccola sfera si espanse, la sua luce inquietante attraversò in
un lampo l'intero pianeta.
Le guardie Cyborg crollarono rumorosamente a terra, sferragliando.
Trenta miliardi di uomini, allo stesso modo, caddero a terra privi
di anima.
Il cervello dell'Imperatore, dopo trecento anni, si spense.
Chiunque si vanti di essere signore e padrone dei delle e delle
terre mente agli altri, mente a se stesso.
La Terra non è di nessun uomo.
[close]

Epilogo

Spoiler
Quello che rimaneva della Ventottesima Legione era accampato sul
fondo di una valletta concava, circondata da un bosco di pini
annosi, poco distante da Tirgoviste.
Protetto dalle Alpi Transilvane, il campo era stato allestito
intelligentemente, in modo che non fosse visibile dall'alto.
Per riuscire a distinguere qualcosa bisognava esserci vicinissimi.
In tal caso si sarebbero notate una serie di caverne comunicanti e
accanto all'unica apertura montava la guardia una sentinella
armata.
Appollaiato sul sellino di una batteria antiG, il legionario
scrutava teso la notte stropicciandosi le mani per il freddo.
All'interno l'aria era calda e fumosa, i fuochi gettavano ombre
deformi sull'attrezzatura.
Cucine da campo, provviste, casse d'armi e munizioni, apparecchi
di comunicazione.
A terra, nei sacchi a pelo, dormivano i legionari.
Il Centurione Cornelio Minucio Rufo, depresso, s'era attaccato a
una bottiglia di distillato mentre un legionario tentava di
connettersi con la “Caesar” e con gli altri distaccamenti.
- Nessuna risposta?
- Nessuna, Centurione.
- Continua a provare.
Uno schianto tremendo risuonò della caverna.
L'uomo che montava la guardia all'esterno aveva sfondato la volta
di roccia ed era andato a disintegrarsi ossa e organi interni su
una cassa.
Insieme alla batteria antiG.
Dal buco aperto nella pietra si potevano vedere le stelle.
Qualche goccia di sangue colò da lì sino a terra mentre il fumo
dei fuochi iniziò a mescolarsi con la bruma notturna.
I legionari si svegliarono di scatto balzando in piedi.
Tre uomini erano apparsi all'imboccatura della caverna.
Tutti e tre molto alti, tutti e tre molto minacciosi.
Fili invisibili bloccarono i soldati di Nuova Roma in posizioni
innaturali.
Sinistri scricchiolii di ossa e tendini spezzati riempirono la
caverna.
Uno dei tre uomini – quello con i capelli bianchi – sogghignò con
sadismo.
L'uomo più alto afferrò la bottiglia del Centurione prendendone
una lunga sorsata.
Poi, lentamente, gli si avvicinò prendendolo per i capelli.
- Non è male questo scotch. A chi l'hai rubato?
L'uomo pescò dal taschino del Centurione un pacchetto di
sigarette, accendendosene una.
Guardando in aria con espressione assente, sbuffò una nuvola di
fumo bluastro.
- Siamo arrivati tardi...ci tocca fare pulizia.
Un scarica di globi violacei investì i legionari immobilizzati e
distrusse la caverna facendola crollare.

Quattro armate guidate da planetoidi da battaglia del tutto simili
alla “Caesar” lasciarono i pianeti presso cui orbitavano.
Quattro armate provenienti dai quattro quadranti della galassia e
guidate dai loro governatori.
Servio Sulpicio Galba – da Nuova Lutetia – Marco Salvio Otone – da
Nuova Eboracum – Aulo Vitellio – da Nuova Colonia – e Tito Flavio
Vespasiano – da Alexandria V.
Tutti e quattro puntavano su Nuova Roma per sedersi sul trono
Imperiale.
Nessuno dei quattro aveva mai sentito parlare del pianeta Terra.
[close]

15
buongiorno signore e signore. Apro questo topic per le pressanti richieste delle mie numerosissime fan
Spoiler
probabilmente una :ya:
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che a gran voce hanno implorato
Spoiler
buahahahahahahha oggi regalo puttanate
[close]
una fanfic romantica.
Dunque premetto due cose:
1) è un work in progress per cui come sempre i suggerimenti son ben accetti
2) nel test sulla personalità di Jung ho ottenuto alla voce sentimento, un possente 2 su 40 per cui...non ho certezza che lo scopo sia proprio stato raggiunto.
in ogni caso, è il pubblico a decidere :sisi:

parte prima

Spoiler
Era fredda la notte di Atene, umida, buia, con tristi stelle
fioche.
Una notte di fine Ottobre.
Il cielo aveva pianto per i morti fino a poco prima e i rami degli
alberi che fiancheggiavano la scalinata ancora gocciolavano sul
marmo.
Poi il vento del sud, generoso, aveva disperso le nubi – non ci si
può disperare per sempre – e con loro anche lo sporco e le polveri
della battaglia appena conclusa.
Il sangue versato, invece, era rimasto.
Quello santo della Dea, quello dei suoi paladini, quello dei suoi
nemici.
E se la pioggia non l'aveva lavato via, quale uomo avrebbe osato
farlo?

Galan guardò sconvolto le rovine della Terza e della Quarta Casa –
distrutte da Saga - poi, sollevando il capo, quelle della Sesta –
incenerita dalla scontro di due Athena Exclamation.
Il suo sguardo non riusciva ad arrivare oltre ma sapeva cos'era
accaduto alla Tredicesima.
L'aveva percepito, senza riuscire a crederci.
Qualcuno poi, non ricordava chi, glielo aveva riferito in lacrime.
Dei...che cosa abbiamo fatto per meritare questo?
Scuotendo la testa, Galan rientrò nella Casa di Aiolia.
Il grande braciere di bronzo, posto al centro dell'atrio in onore
della Dea, bruciava incenso e legno di sandalo.
Il suo fumo denso, oleoso, speziato, mascherava l'odore di morte.
Altri bracieri, più piccoli, stavano vicini ai muri delle sale e
dei corridoi, illuminandoli e scaldandoli un poco.
Un mesto andirivieni di servitori e ancelle animava il Palazzo.
Anche qui, come in tutti quelli ancora presidiati, si contavano i
danni.
Il colonnato del pronao e la pavimentazione erano stati
bucherellati dai tentacoli di Laimi ma in fondo era poca cosa.
La Casa di Aiolia era ancora in piedi.
Galan capiva quanto fosse assurdo pensare al Palazzo in un momento
come quello ma era un essere umano e, per non lasciarsi andare
allo sconforto, aveva bisogno di avere materialmente qualcosa da
fare.
E poi che aiuto poteva dare ad Aiolia se non riparare la sua Casa?
Galan si fermò davanti ad un grande specchio d'argento lucidato,
ripensando a quando il leggendario Aiolos di Sagittarius gli
affidò il fratello minore, poco prima di essere assassinato.
Per la prima volta in tutta una vita, fissandosi, ebbe ribrezzo
del suo inutile, debole corpo storpiato.
L'unico amico di vecchia data di Aiolos, colui che era destinato
alla Cloth del Leone, volse le spalle allo specchio ed entrò nel
salone principale sussurrando una bestemmia agli dei.
Maledetti, porci maledetti senza pietà!

Seduto a gambe accavallate sulla sua savonarola preferita, Aiolia
di Leo fissava un punto imprecisato al di là della finestra.
Le colline di Atene, la notte arrivata troppo presto, la nebbia.
L'immagine era nitida, evidente di fronte ad Aiolia eppure lui, a
capo scoperto, sembrava la vedesse senza vedere affatto.
Allo stesso modo non faceva caso a Lythos che, con infinita
delicatezza, gli stava togliendo i coprispalla né alle due ancelle
che lavavano con cura le cubitiere macchiate di sangue.
Il Leone d'Oro non pensava al suo palazzo, né alle lesioni
riportare combattendo e uccidendo il verme.
Affranto, disperato, senza più speranza né lacrime, rigirava fra
le mani una vecchia fotografia scattata chissà quando, chissà
dove.
Aiolos, suo fratello, gli sorrideva.
Lythos gli slacciò la corazza trasalendo alla vista delle sue
ferite.

- Oh...nobile...nobile Aiolia...che cosa vi hanno fatto?

Per un attimo, un solo istante, la dolce e timida voce di Lythos
lo distrasse.
No non fu distratto, no.
Fu riportato a casa.

- Come?

Solo allora, voltandosi in direzione della voce, Aiolia si rese
conto di non essere solo.
Vide finalmente Lythos, le ancelle, Galan e altri servitori che
valutavano l'entità della devastazione e portavano via le macerie
più ingombranti.
Da quanto tempo era seduto?

- Perdonatemi nobile Aiolia...mi chiedevo solamente se provaste...
provaste...

Non lo vedi, Lythos? Non lo vedi che non è il mio corpo a
sanguinare?


- Dolore? No...no Lythos. Ti ringrazio ma posso sopportarlo...
almeno per un po'.

Ma no, come potresti bambina mia.

- Non è niente.

Spire violacee ricamavano il suo torace ma respirare non gli
procurava dolore.
Le costole sono a posto.
Aiolia tornò a fissare il vuoto, lasciando che le sue ancelle lo
impiastricciassero con un unguento antidolorifico.
Il loro cinguettio, in fondo, era piacevole.
Anche loro poi, come tutti nel comprensorio del Santuario, avevano
percepito la morte di Athena e come per Galan – sì mio vecchio
amico, lo vedo sai...lo vedo bene
– l'aver qualcosa da fare era
l'unico modo per evitare di impazzire.
O di tempestarlo di domande cui non avrebbe saputo rispondere.
Ma lui, Aiolia di Leo, aveva tutto il tempo che voleva per
pensare.
Aldebaran, Shaka...amici miei.
Non riesco a credere che ve ne siate andati.
Deathmask, Aphrodite, Camus, Shura, Saga...cani traditori.
Potessi uccidervi altre mille volte.
Athena.
Dove siete adesso?

Aiolia strinse nelle mani la fotografia.
E dove sei tu, fratello mio, ora che ho più bisogno di te?

Lythos non udì i passi silenziosi di Marin, né percepì il suo
cosmo.
Nessun altro se non il Leone, per lei, esisteva in quel momento.
E niente altro oltre alla sua disperazione che le gelava le ossa.
Quante volte il nobile Aiolia aveva fissato quella fotografia?
Quando avrebbe smesso di idolatrare quell'uomo a cui nulla più
doveva?
Quando si sarebbe reso conto di essere l'eroe che era diventato?
N...nobile...

- Potete andare, tutti. Penso io al nobile Aiolia.

Lythos voltò la testa in direzione della nuova arrivata.
Con occhi furiosi fissò la maschera inespressiva indossata da
tutte le sacerdotesse.
Come osava questa donna dar ordini qui, nella Casa di Aiolia, dove
lei serviva da sempre?
Pur intimidita la fronteggiò, unica fra le ancelle che già stavano
prendendo congedo.

- Ma...ma io...io non posso...

Come per Lythos, così per Marin.
La Quinta Casa era vuota e solo il Leone esisteva in quel momento.
Ritta in piedi, Marin fissava la ragazza dall'alto in basso
ricacciando indietro un moto di rabbia.
Era forse una colpa l'esser devota ad Aiolia?
No,certo che no.
Devota? É davvero solo questo? E se anche fosse, come potrei...

- Non mi hai udita ragazzina? E poi...ci sono altre incombenze cui
devi badare. Ora lasciaci.

Gli occhi di Lythos, imploranti, incrociarono quelli di Aiolia.
Sperava che un suo ordine, o magari un rimprovero, le permettesse
di restare lì, accanto a lui.
Era quello il suo posto.
Sperava che quella donna sparisse.
Il Leone, invece, le spezzò il cuore.

- Andate, andate a riposare...tutti. Ne avete bisogno. Anche tu,
Lythos cara.

Un istante prima che Lythos potesse replicare, Galan le posò
l'unico braccio sulla spalla.
Gli occhi della ragazza, quando si posarono su di lui, erano al
limite delle lacrime.
Siamo di troppo qui.
Galan, Saint senza armatura, invecchiato prematuramente se pur
ancora giovane, la portò fuori dal salone.
Fu gentile con lei, ma fermo.
Umiliata, furiosa ma impotente, Lythos si lasciò trascinar via.
Usciti dal salone, però, si avvinghiò a lui singhiozzando forte.
Mi dispiace tanto bambina mia.

Rimasti soli, Marin s'avvicinò ad Aiolia esaminando con cura il
torace fasciato.
Un lieve odore di semi di lino superò la maschera sfiorandole il
naso con delicatezza.
Almeno il tuo corpo l'hanno rappezzato.

- Le ferite sono superficiali...guariranno in pochi giorni.

- Giorni?

Marin sospirò.
Il discorso aveva preso una piega che avrebbe tanto voluto
evitare.
Almeno per un po'.
Abbassando lo sguardo, notò ciò che Aiolia stringeva nel pugno.
Ancora ti tormenti Aiolia?

- Stai pensando al passato...di nuovo.

Gli occhi di Aiolia si spostarono da Marin alla fotografia per
tornare su Marin trapassandone la maschera.

- Nemmeno un anno fa sarei finito a Capo Sunion per alto
tradimento.
Ora...adesso più che mai...vorrei che fosse qui.

- Non credo avrebbe fatto di meglio.

- Forse. Mi accontenterei del suo consiglio.

Marin, in un moto di stizza, gli si avvicinò.

- E cosa potrebbe mai dirti ora che Athena è/

Aiolia, furibondo, disintegrò un bracciolo della savonarola, stritolandolo con la mano come fosse di carta.
[close]

parte seconda

Spoiler
- Morta? È questo che stavi per dire? Morta?

Le bende, sul suo petto, sfrigolarono riducendosi in cenere.
Marin, interdetta, arretrò.

- I...io...

- Taci donna. Io c'ero...io, non tu. Io l'ho vista morire, io ho
visto Saga squarciarle la gola, a neppure un metro da me.
Come osi tu giudicare?

La testa e le spalle di Aiolia, gravate da un peso eccessivo
persino per lui, crollarono come quelle d'un vecchio.
Come era venuta, la sua rabbia se ne andò.

- Curioso non è vero? Che ci sia riuscito...solo da morto,
intendo.

Puntellandosi sui braccioli, Aiolia si alzò in piedi.
La smorfia di dolore che si disegnò sul suo volto quasi sfuggì
agli occhi di Marin.
La donna fece per sorreggerlo, poi ci rinunciò.

- Non dovresti alzarti...

Aiolia prese fiato – un unico doloroso respiro mozzo –
avvicinandosi ad una finestra.

- Sì invece.

Le stelle di Leo, in cielo, sembravano spente.

- Ora sono agli ordini del vecchio maestro. Lui e Kanon
scenderanno negli inferi mentre io, Mu e Milo assalteremo il
castello di Hades.
Stermineremo gli Specter che ancora camminano sulla terra e poi/

- Non...non andare...

Aiolia, stupefatto, si voltò verso di lei.

- Che stai dicendo? Seiya e gli altri sono già in marcia.

- E allora lascia che siano loro a/

- Non bestemmiare. Non la abbandonerò. Mai. Aiolos non avrebbe/

- Aiolos era solo. Non aveva...

Aiolia sferrò un pugno contro una colonna, schiantandola.
Il suo cosmo, avvampando d'ira, incenerì i rottami di marmo
sublimandoli.

- Perdonami...io non...non...ti prego, non andare.

Ancora una volta, la rabbia di Aiolia si estinse come una
fiammella.
Perché non capisci?

- Non posso.

- Ma perché...perché? Che altro devi ancora sopportare?

Aiolia non rispose.
Nemmeno la guardò quando Marin gli arrivò tanto vicina da
sfiorarlo.

- Lei capirebbe...capirà.

- E il mio onore?

Marin, con rabbia, gettò a terra la maschera rompendola in due
pezzi.

- E il mio?

Aiolia sgranò gli occhi sconvolto.

- M...Marin...cosa...cosa stai/

- Non ha il medesimo valore il mio? L'onore d'una donna è forse
inferiore a quello d'un uomo?

Aiolia le volse le spalle.
Devoto ai dettami sacri, non voleva, non doveva guardarla.
Eppure lo desiderava.

- Rimettila...

- No, non lo farò.

Marin lo raggiunse, fermandosi a un passo da lui.
Un passo, niente.

- Ti propongo un baratto. Il tuo onore...per il mio onore.
Resta qui, con me...tutta la notte. Lascia che siano Mu...e
Milo...ad espugnare il castello.

- Marin...

- Se questo è il prezzo che devo pagare per saperti in vita...beh
è ben poca cosa.
Sono disposta ad essere, per stanotte, la peggiore delle
sgualdrine.

- Ti ho detto di rimettere la/

- O forse preferisci che ti prenda a calci? Amore o morte, non
ho...non abbiamo mai avuto alternative...da sempre.
In ogni caso tu rimarrai qui.

- Non essere assurda. Te lo ripeto un'ultima volta.
Rimettiti la maschera.

Marin non disse una parola, ma attaccò.
IL suo pugno fendette l'aria diretto alla mascella del Leone
d'Oro.
Aiolia, a questo punto scattò.
Aggraziato le afferrò al volo il polso torcendolo.
Guardandola fisso la fronteggiò, poi la sua mano si abbatté con
forza sul viso di lei.
Marin, incredula, si toccò la guancia.
Aiolia era un Gold Saint, l'elite combattente della Dea.
Era padrone della velocità della luce e lei, fino a quel momento,
s'era dimenticata di quanto potesse essere veloce.
Poi, altrettanto velocemente, con la medesima forza, la strinse a
sé.
Le bocche di entrambi si cercarono avide, con tanta forza da farsi
male, quasi staccandosi le teste.
Selvaggi, rabbiosi, tanto esplosivi da spazzare via per un attimo
la tragedia del mondo prendendosi l'anima in quell'istante senza
fine.
Stanotte cenerò con Hades, ma tu...tu non mi seguirai.

- E allora, sgualdrina...spogliati.

Marin, interdetta, fece per rispondere ma lui fu più rapido.
Strappandole i vestiti la gettò a terra, in ginocchio.

Milo e Mu aspettavano in piedi di fronte alla Quinta Casa,
impazienti di andare a morire come sono solamente i molto giovani
o i molto sciocchi.
Nessuno parlava.
Concentrati, chissà dove erano le loro menti.
Un'unica domanda galleggiava non detta.
Verrà il Leone?

- Scusate il ritardo.

Aiolia, fiero, si stagliava contro il colonnato del suo Palazzo.
Il suo passo, scendendo la scalinata, sembrava fiacco.
Non parlò scendendo, salutandoli unicamente con un cenno d'intesa.
Mi dispiace...ma ora, ora non piangerai la mia morte.

- Qualcosa non va?

- No...no, tutto bene. In marcia.
[close]

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